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photo by: http://www.flickr.com/photos/goddess_spiral/3198229212/
Continuo il post precedente cominciando ad indagare gli ingranaggi che ci intrappolano in strade chiuse e soffocanti anziché farci scivolare su dolci pendii verso la nostra meta: la Felicità.
“Riordina la tua stanza, metti il vestito nuovo, aiutami in cucina, impegnati a scuola …”. Quante cose abbiamo imparato a fare per essere amati!
“Ti voglio bene solo se fai, agisci, rispondi e corrispondi, se ottieni risultati …”. Così inizia la corsa alla perfezione.
Provate ad ascoltarvi e a rispondervi con sincerità: sentite questa credenza , essere amati per ciò che fate e non per ciò che siete? Temete di essere biasimati, rifiutati e di dovervi vergognare se non siete sempre pronti a fare qualcosa? Non è faticosa questa corsa alla perfezione per piacere a tutti evitando di dispiacere a qualcuno?
Molta della stanchezza, dell’angoscia, del senso di colpa e della depressione all’interno di coppie, di famiglie e in ambiente professionale, si possono spiegare attraverso questa insicurezza affettiva di base che io stessa ho vissuto in prima persona e che ora ascolto molte volte dai miei clienti espressa più o meno in questo modo: “ non mi sono mai sentita amata incondizionatamente, amata per come sono, per la mia unicità. Ho interiorizzato che bisogna fare un mucchio di cose per ricevere amore. Per questo, non smetto di correre da una cosa all’altra, per essere amata, accettata, gratificata, per trovare il mio spazio. E, in fondo, se mi guardo bene dentro, nemmeno io stessa riesco a darmi un riconoscimento, a darmi lo spazio che mi serve né tanto meno ad amarmi, se non lavorando 10 ore al giorno, occupandomi di mio marito e dei miei figli, proseguendo di sera la mia formazione, mantenendomi in forma facendo sport, mantenendo un’assidua attività sociale … etc….”
Provate a verificarlo voi stessi ponendovi questo interrogativo: “Se mi sentissi veramente e profondamente sicura di me, totalmente rassicurata dal fatto che sono amata e rispettata per come sono, con i miei difetti e le mie qualità, e se mi volessi bene io stessa in modo così solido, con le mie luci e le mie ombre, non farei un po’ meno per assaporare di più il mio essere???”.
Chi non si è mai trovato un giorno perdutamente immerso in un sgono ad occhi aperti, fantasticando sulla meraviglia di essere leggeri? Chi di noi non ha mai cercato di decifrare il labirinto di maglie blu su un tappeto di lana rossa o ancora riconoscere un volto o una persona nella geometria di un pavimento, senza farsi risvegliare bruscamente dalla sua piacevole fantasticheria da un “ma che fai lì impalata, fa qualcosa”?
Questa prima trappola del Fare è molto potente in quanto, nella nostra cultura occidentale, non c’è praticamente posto, né riconoscimento per altri modi di vivere che non siano attivi e debitamente elencati nel catalogo della produzione di beni e servizi.
Chi lavora dieci ore al giorno , sei giorni su sette, saltando di riunione in appuntamento, è una persona responsabile, che impressionerà. Chi lavora quattro giorni a settimana invece di cinque per avere più tempo per i suoi figli o il suo orto viene visto come uno stupido sempliciotto.
Secondo me, questo punto di vista permette di comprendere il meccanismo su cui si basa la nostra società, in cui l’umanità e le relazioni sono messe in secondo piano rispetto all’azione, alla produzione e all’organizzazione.
Chi riceve più considerazione sociale e finanziaria, un banchiere o una maestra della scuola materna? Un avvocato o un educatore di strada? Un imprenditore o un insegnante? Un politico o un ‘infermiera?
Chi dispone di un budget più alto, di tutte le risorse materiali e umane di cui necessitano per funzionare al meglio: gli asili, le scuole, le case di riposo per gli anziani, gli ospedali o gli uffici, le grandi imprese, le aree commerciali o industriali?
La scelta di queste priorità è per me fortemente legata alla nostra abitudine culturale di valorizzarci tramite l’azione, la performance e i risultati, L’educazione ci allontana da noi stesso più spesso di quanto non ci inviti all’interiorità. Dedicare tempo alle nostre relazioni, godere della compagnia degli altri, immaginare qualsiasi cosa, meditare, interiorizzare o anche solamente non fare niente, tutto questo è stato a lungo definito come ozio, padre di tutti i vizi, della pigrizia e persino del disadattamento sociale” Sei una dolce sognatrice …. Ma la vita è dura , se continui così, non sopravvivrai. Bisogna lottare per vivere!”.
Attenzione, non intendo con questo dire che dobbiamo semplicemente Essere, perché non c’è niente che valga la pena di Fare. Da un lato, dico che possiamo certamente agire, fare molte cose, perché se non andiamo incontro a quello che desideriamo, corriamo fortemente il rischio di farci ostacolare da quello che non vogliamo, o di non arrivare da nessuna parte. Se non coltiviamo i nostri fiori, i nostri legami, è probabile che il giardino sarà invaso da rovi ed erbacce. Inoltre c’è molta gioia nel dedicarsi a tante attività.
D’altra parte, dico che, sentirsi viva solo facendo mille cose, è costeggiare senza accorgersene un giacimento di benessere, di soddisfazione interiore e di felicità gratuito e a portata di mano. E’ camminare, senza saperlo, sul tesoro che cerchiamo.
Se sintetizziamo all’estremo l’intento primario di tutte le nostre azioni, non cerchiamo tutti, qualunque cosa facciamo, la soddisfazione profonda dell’essere? Tuttavia è raro rimanere a lungo consapevoli del fatto che qualunque cosa facciamo e qualsiasi siano le nostre motivazioni, anche le più altruiste, quello che cerchiamo è sempre il nostro benessere interiore e che tutte le domande, le azioni, i comportamenti e le strategie messe in atto per raggiungere questo scopo, sono al servizio di questo.
La maggior parte di noi, non sapendo che è questa profonda soddisfazione che desidera non cerca nel posto giusto, né al momento giusto, né nel modo giusto. Si ritrova così nei panni del tizio della storiella che cerca le chiavi di notte sotto un lampione. Un passante gli chiede cosa sta facendo “Cerco le mie chiavi”, gli risponde. Il passante si mette a cercare insieme a lui, poi un latro si unisce a loro, poi un altro e un altro ancora. Tutte queste persone si agitano e si danno da fare incrociandosi sotto il lampione, fino a quando uno dei passanti chiede: “Ma siete sicuro di averle perse qui?”, “no, risponde l’uomo, ma qui almeno c’è più luce?”.
Come quest’uomo, noi puntiamo, la maggior parte delle volte all’evidenza, cioè dove c’è più luce: facciamo quello che bisogna fare e troviamo raramente quello che speriamo di trovare!.
In fondo è come se dicessimo:” Cerco dove è più facile cercare: c’è un bel lampione fisso, una semisfera di luce ben delineata, un selciato facile da esplorare. Questo mi dà un contegno, un alibi”.
In questa metafora, il lampione è la nostra piccola coscienza immersa nell’immensa notte dell’inconscio; la zona illuminata, quello che conosciamo o crediamo di conoscere del mondo e di noi stessi; il selciato, le nostre abitudini, i nostri sentieri più battuti.
Quello che cerchiamo, le nostre chiavi perse tra l’erba, i cespugli, i canali di scolo lì vicino, è lì ed aspetta. Quello che cerchiamo è sempre lì ad aspettarci, aldilà del recinto delle cose che vediamo, facciamo, conosciamo e proviamo.
Abbiamo paura dell’intensità dell’essere, ma è proprio quella che ci manca. Curiosamente, se non mettiamo l’intensità dell’essere al centro della nostra vita, è sempre lei che cerchiamo di raggiungere, a volte insaziabilmente, con la nostra corsa . Ci ritroviamo così nell’iperattività professionale, sociale e familiare, sportiva o mondana, una sorta di stordimento organizzato che procura un’impressione periferica di intensità, senza però nutrire in profondità né tanto meno saziare.
In definitiva abbiamo paura dell’intensità, paura di perderci dentro, di dissolverci. In effetti, abbiamo imparato a sminuirci, a non disturbare, a non fare troppo rumore, a diffidare del nostro slancio e del nostro entusiasmo. Non abbiamo imparato a vibrare all’unisono con la vita vivendo appassionatamente i nostri slanci.
“E’ la nostra luce, non il nostro buio ciò che ci spaventa: siamo smisuratamente potenti …” (Nelson Mandela). Presi come siamo ad essere benevoli e gentili, questa forza che preme dal basso ci fa paura. Spesso, persino prima di averla sperimentata, battiamo in ritirata, ritornando al nostro modo di essere e, soprattutto di fare, più rassicurante perché abituale.
Gli altri hanno paura della nostra intensità poiché hanno paura della propria. Saremo spesso divisi nel nostro cammino tra la voglia di avanzare e la tristezza di lasciare andare lungo la strada delle amicizie a cui tenevamo o degli incontri, che la paura dell’intensità potrebbe compromettere.
La soluzione?? Nessuna bacchetta magica ….
Se percorriamo la strada che porta verso l’autostima e l’amore incondizionato per noi stessi, riusciremo sempre più facilmente a stabilire le nostre priorità e ad instaurare nelle nostre vite dei ritmi a noi più congeniali.
Più rispetteremo le nostre scelte e i nostri ritmi, più ci apriremo a rispettare quegli degli altri.
Più siamo veramente presenti a quello che facciamo, meglio lo facciamo. Più questo ci soddisfa, meno sentiamo il bisogno di “fare troppo”. E’ meno faticoso e migliora la qualità della nostra vita.
E in ultimo vi lascio con una domanda, la cui risposta sincera potrebbe aprire nuove vie “continuo ad introdurre sempre più cose da fare nella mia vita o ad introdurre sempre più vita nelle cose che faccio?” …..
“ L’identità umana non è semplicemente
un confortevole luogo di soggiorno, ma una
interrogazione permanente – in che modo
essere e in che modo esserci” ..”
Vaclav Havel
Nel prossimo post la seconda trappola …..