Quantcast
Channel: RI-TROVARSI.... - divagazioni-e-svelamenti
Viewing all 144 articles
Browse latest View live

Cercare è vivere .....

$
0
0

fotoaerea.jpg

Passiamo buona parte della vita a cercare. Molto spesso non sappiamo cosa, talvolta crediamo di saperlo,ma quando l’abbiamo trovato riprendiamo a cercare: altro, altro da noi, da quello che siamo e che abbiamo.

Questo incessante movimento appare a qualcuno come un impulso a crescere, a “realizzarsi”, come si dice con un termine abbastanza superficiale e formale.

A qualcun altro esso può sembrare il frutto della necessità di colmare una specie di assenza, di insoddisfazione perenne che non si placa mai, dovuta ad antiche carenze affettive e relazionali che ci hanno lasciato un segno indelebile nel cuore.

Comunque ci appaia, cercare è vivere, perché nel flusso inarrestabile di ciò che è, cresce, cambi e muore intorno a noi è necessario trovare un senso, un’origine, una prospettiva.

Per comincia re a cercare non abbiamo bisogno di molti strumenti: ci basta ascoltare il senso di leggero vuoto che la nostra anima ci suggerisce.

Cercare è un esercizio per la mente e per gli affetti, ci sottrae alla banalità delle abitudini, ci aiuta a guardare oltre il nostro naso e ci costringe a non dare per scontate le nostre opinioni. In poche parole, ci rende persone più aperte e curiose, sensibili alla bellezza del mondo e un po’ meno influenzabili dalla paura e meno inclini, quindi, alla pigrizia.

Quando incontro persone che “cercano” e nel mio lavoro ne incontro molte, vivo una felicità dell’anima, perché so che il risultato di questo cercare è sempre la scoperta di una verità, il ritrovamento di un filo apparentemente perso che ci porta più vicino alla meta: darci un senso ….

Uno degli atteggiamenti più belli di questo atteggiamento aperto alla ricerca, è quello di arricchire la nostra identità. Se ci difendiamo troppo da quello che è diverso da noi, tendiamo infatti a vivere per tutta la vita nella stessa stanza, ad alimentare la convinzione che quello in cui crediamo, quello a cui siamo abituati e quello che ci fa comodo siano, in sostanza, il vero universo, quello giusto, quello migliore.

Immaginiamo, ora, che la nostra visione del mondo si trasformi in un paesaggio, in un panorama che contiene tutto quello che vogliamo: case, città, campagna , montagne etc.

Ora saliamo su un elicottero e prendiamo il volo: più ci alziamo da terra e più il panorama tende a sfuocare nei dettagli, ma ci appaiono altre cose, altre valli e latri mari, altre regioni della vita che, chiusi nel nostro piccolo paesello, mai avremmo sospettato potessero esistere.

Possiamo decidere di atterrare, conoscere nuovi dettagli. Per esempio possiamo mangiare nuovi cibi e cercarne la bontà, anziché paragonarli a quelli a cui siamo abituati, possiamo accettare il punto di vista di una persona che la pensa diversamente da noi e cercare di sentirlo come vero, possiamo cioè sentire che allargare la nostra identità non ci fa “perdere”, ma arricchire e crescere.

Certo, l’esplorazione fa un po’ paura. All’inizio è necessario stare attenti a non mangiare funghi velenosi, a non accoppiarci con il nemico. Ma poi si diventa bravi, si impara ad essere prudenti e si diventa via via più forti ed esperti.

Quando si comincia si sa che per tutta la vita non si potrà smettere, perché l’esplorazione ci fa incontrare abissi profondi e meravigliosi, spesso nascosti dietro un’apparenza del tutto quotidiana che diamo per scontata ….

 


Come riconoscere e alimentare gli spazi del piacere …

$
0
0

bimbo gioca.jpg

Il piacere è una ricchezza che può esistere ovunque, un aspetto possibile di ogni cosa che facciamo, una fonte di energia che ci rilancia nella vita e ci rende possibile conseguire obiettivi altrimenti lontani e difficili.

Ho sempre un po’ detestato il detto “prima il dovere e poi il piacere”, perché invece è possibile rendere piacevole il dovere, o perlomeno non renderlo spiacevole.

Ogni giorno al nostro risveglio, se vogliamo, possiamo dare un rapido sguardo agli impegni che ci attendono e viverli come una intollerabile sequenza di compiti, spostamenti, orari obbligati, impegni che ci limitano, che ci espongono a prove e sacrifici, ci soffocano. In quel momento il nostro sguardo seleziona i punti critici della vita perché siamo orientati a vederla così. Ci sono, altresì, persone felici che hanno mille appuntamenti e mille doveri, persone infelici che possono fare quello che vogliono.

Personalmente, comunque sia la giornata che mi attende, cerco sempre di godere del profumo del caffè di prima mattina, di sentire fino in fondo il brivido del corpo che si risveglia e vorrebbe ancora un po’ dormire, del mio cane che cerca la mia attenzione strofinando il muso sulle mie gambe. Sono attimi, piccolissimi momenti di piacere che migliorano l’umore. La sola idea che esistano, che siano possibili, mi dispone bene.

Ma il piacere deriva anche dall’accettare quello che è necessario fare, dal darsi la possibilità di arricchire il “dovere” con la nostra impronta. Il piacere è uno spazio creativo.

E se non ci sono spazi creativi nel nostro “dovere”? Il piacere non deriva tanto da “cosa” si fa, ma da “come” lo si fa. Imbustare mille lettere, incollare gli indirizzi e chiudere le buste non è il massimo della vita, ma se lo si fa approfittandone per pensare e sognare un po’ o ascoltando musica, può essere un lavoro gradevole e rilassante. Oppure insieme a qualcuno, approfittando dell’occasione per chiacchierare e scherzare. Il piacere è uno spazio relazionale.

Possiamo sentire piacere in modo travolgente quando sentiamo di crescere, di migliorare. Il piacere è uno spazio di sviluppo della mente.

Possiamo anche vivere il piacere di essere amati, riparati dai dolori, protetti dal male. Il piacere è uno spazio consolatorio.

Spesso chiedo ai miei clienti: “Cosa le dà piacere nella vita?” Molti si bloccano, riflettono e mi guardano con aria stupita. Nulla! Sentono che nella loro vita non c’è nulla di piacevole, ma soprattutto sentono che l’idea stessa del piacere è estranea al loro mondo interno, come se da tempi antichissimi avessero preso la decisione di non concedersi questa esperienza.

Siamo troppo spesso noi, non il mondo, ad eliminare questa possibilità dalla nostra vita. Anche quando ci sembra che siano stati gli altri, le circostanze avverse, i problemi, le cattiverie.

Ri-trovare dentro sé questa fonte di bene non è facile. Spesso bisogna attraversare conflitti, affrontare ansie, disobbedire a regole. Il piacere è uno spazio trasgressivo.

E ora arrivederci … ar-rivederci con piacere ….

La Fiducia e la Fortuna

$
0
0

mani ombra.jpg

photo by: http://www.flickr.com/photos/74342438@N00/460088566/


Sicuramente dopo l’11 Settembre 2001 ci ritroviamo tutti con meno certezze; una netta linea di demarcazione ha diviso il “prima” con il “dopo”. La fiducia nei mercati, la fiducia nel lavoro, la fiducia nel progresso, nella crescita vengono meno.

Quando la realtà supera l’immaginazione tendiamo a perdere fiducia come se non ci fosse più tanto tempo davanti per crescere e cambiare, come se tutto diventasse improvvisamente più urgente , più immediato. Perché la sorpresa, l’agguato aumentano le probabilità.

Così questi episodi così travolgenti snaturano la ciclicità della vita. Un qualcosa che poteva capitare una volta nella vita, passa a due, si raddoppia e crolla la fiducia. L’imponderabile, il fattore “succede”, che sgomenta da sempre noi uomini, aumenta di probabilità. Drasticamente è questo il mondo in cui viviamo ora.

In questa fase più che mai, diventa centrale il confronto con l’altro, la relazione come condivisione, l’affetto come diretta conseguenza del ritrovarsi con vissuti simili e diversi che diventano una ricchezza per tutti.

Solo così può rinascere la fiducia: dall’incontro di varie persone che insieme alimentano l’unica energia capace di opporsi anche simbolicamente all’evento distruttivo: la solidarietà.

In un mondo centrato volutamente sulla paura, sulla strategia del terrore, l’altro non c’è mai, se non come oggetto proiettato di un bisogno disperato di dipendenza e quindi sempre distante, sempre irraggiungibile. Invece l’altro è qui. Basta che alziamo gli occhi, lo vediamo, lo riconosciamo ed è qui pronto a vederci, a riconoscerci, a smascheraci, ad amarci per quello che siamo. Prendere o lasciare, questa è la fiducia. Un’opportunità.

Ma che cosa è la fortuna? La fortuna non è un caso, né passività. Se noi onoriamo noi stessi, ci rispettiamo profondamente e facciamo la stessa cosa con gli altri, arriva la fortuna che non è altro che la percezione di un’essenza sacra dentro di noi ….. Namastè  “mi inchino al divino che è in te”.

La fortuna è qualcosa di sacro. Tutte le volte che disprezziamo noi stessi, senza andare fino in fondo al processo di dolore,senza elaborare il disprezzo, senza trasformarlo ma abbandonandoci al vittimismo, allora la fortuna non compare, non può comparire.

La fortuna arriva se c’è la volontà di rispettare la vita.

Lo stesso vale per la paura. Quando è lontana da un messaggio di cambiamento, quando è semplicemente frutto di un condizionamento, di un’abitudine, quando è un elemento parassita, allora va affrontata e trasformata. Come? Attraverso il corpo.

Il corpo può diventare uno strumento straordinario di trasformazione della paura. Si tratta di Fare. Di muovere questa grande energia. Una volta trasformata, la paura diventa il viatico per il piacere. Scoprendo il velo, cessa di essere un’emozione che paralizza, lasciando fluire il dolore si apre la porta al piacere. E la paura riprende il suo giusto posto ritornando ad essere un avviso, un campanello d’allarme per rientrare in noi stessi per ri-indicarci la strada del ritorno a casa.

Per me la fiducia è un dono che spesso perdiamo e dobbiamo riconquistare, come??? Con un duro lavoro su noi stessi. E’ qualcosa di mobile, vitale, che si riconquista lottando.

La fortuna è frutto della fiducia.

La fiducia è credere nel cambiamento. E’ lavorare ogni giorno per migliorarsi, per arrivare a VIVERE. La vita è un viaggio caldo e appassionato, non è quel vagabondare in un deserto arido e freddo che spesso ci troviamo a percorrere pensando che non possa esistere altro paesaggio.

Nasciamo in un certo modo, con un certo bagaglio che ci rende unici, particolari, con una nostra bellezza originale. Attraverso la strategia e poi la marea di meccanismi di difesa originati nella famiglia e propagatisi a macchia nel mondo esterno, finiamo per perdere contatto con la nostra essenza fino a sentirci alienati da noi stessi.

Il nostro sforzo, compito o missione è tornare ad essere quel che siamo sempre stati. E’ questo il vero cambiamento. Solo in questo vecchio-nuovo stato ci possiamo sentire veramente comodi, a nostro agio, come abbiamo sempre desiderato ….

L'Alternanza al di là dell'Apparenza ...

$
0
0

quattro stagioni.jpg

Intonaco e olio su tela di : Antonio Gandossi http://www.antoniogandossi.com/


L’avventura della vita porta con sé il suo carico di problemi, affettivi e psicologici, fisici e materiali. Tuttavia c’è un’illusione che può rendere questa avventura più dolorosa: l’illusione di credere alla felicità rosa su una nuvoletta bianca. In effetti pensare alla felicità come al massimo del benessere e credere che arriverà automaticamente quando tutto il resto andrà alla perfezione, è una trappola in cui molti di noi restano imprigionati.

La maggior parte delle volte, questa illusione ci porta ad adottare uno di questi tre tipi di condotta: possiamo rassegnarci ad aspettare una schiarita rimandando la felicità a dopo; possiamo pensare che è inutile sognare e che quindi è più ragionevole smetterla di aspettare e rassegnarci; oppure possiamo convincerci che la nostra felicità è prova della nostra incompetenza, che dipende da un nostro errore, persino da una nostra colpa, e che è necessario essere felici.

Così elaboriamo un allegro miscuglio di colpevolezza e di senso del dovere che ci mette sotto pressione. Spesso elaboriamo una tossica combinazione di queste reazioni: “Devo essere felice, ma a cosa serve sognare visto che tanto non lo sarò mai, o forse sì, ma chissà fra quanto tempo ..”

In realtà, a ben guardare, la vita dispensa alla maggior parte di noi, per quanto in diverse proporzioni, sia gioie che dolori, periodi di confusione e periodi di fiducia, lutti e rinascite.; attimi luminosi di grazia e meraviglia e periodi bui di sofferenza e disordine. In tutto ciò credo, quindi, che tutti noi possiamo, se lo vogliamo, apprezzare ed assaporare innanzitutto i momenti felici e farli durare il più a lungo possibile.

Tuttavia spesso vedo che ci sono molte persone che non solo non sanno approfittare pienamente di questi momenti, ma che si attaccano, spesso con forza, ai momenti vissuti nel dolore, nella confusione, nella contrarietà, persino a rischio di provocare essi stessi questi periodi. Questo perché frequentemente non si tiene conto dei due principi che stanno alla base del funzionamento della vita.

Il primo principio è l’Alternanza, che poi altro non è che la struttura stessa della vita.

Per Alternanza intendo quei cicli nella vita di ognuno che ritornano con ritmi diversi: la stagione della caduta in cui tutto crolla e si disfa, la stagione del concepimento e dell’attesa in cui tutto si gela e si rigenera, la stagione dei boccioli in cui tutto germoglia e cresce, la stagione della fioritura in cui tutto prende vita e si schiude.

Per quanto l’autunno possa non piacere, nessuno si stupisce del suo arrivo; sappiamo tutti che questa è una stagione di trasformazione e che l’inverno che segue ricicla e rigenera quello che è necessario alla continuità della vita e così per sempre.

Una relazione sentimentale difficile può farci vivere le quattro stagioni in pochi minuti e, alla fine, lasciarci in un autunno apparentemente infinito che ci spoglia, foglia dopo foglia, dei nostri stati di ego per mettere a nudo la forza delle nostre radici.

La morte di una persona a noi vicina può farci precipitare nell’inverno più glaciale, ibernarci a lungo prima che germogli in noi la forza di una vita veramente nuova.

Un periodi di intensa depressione può essere l’occasione di una vera rinascita.

Vedo quindi l’alternanza come un elemento strutturale della vita, non come un incidente né un caso.

Il secondo principio di funzionamento della vita si può riassumere come segue: la felicità che cerchiamo, la sua meraviglia e la sua grazia, possiamo scoprirla, decifrarla, attraverso gli eventi, oltre l’oscurità, oltre le avversità, aldilà dell’apparenza.

Quando attraversiamo delle difficoltà finanziarie o affettive, in cui tutto ci sconvolge e ci viene a mancare la terra sotto i piedi, possiamo ancora godere di una straordinaria fiducia, dell’intima convinzione che quello che ci succede è necessario e naturale, anche se molto spiacevole.

Possiamo fare un lavoro che non ci si addice, che non ci piace, ma la fiamma del cambiamento può già bruciare in n oi. Possiamo essere esausti di crescere i nostri figli, di correre per guadagnarci il pane, di badare alla casa e nonostante tutto goderci il miracolo di essere vivi, in salute, coscienti, sentire che la nostra vita non è solo prendersi cura dei figli, del lavoro e della casa, ma che supera tutto questo e và bel oltre.

Quindi, per quanto vivere sia a volte difficile, la nostra vita non si riduce solamente a questa difficoltà. Il nostro presente non è racchiuso in quello che facciamo, esso è esteso, aperto a tutto quello che siamo: degli esseri viventi, consapevoli, che cercano di gustare il senso della loro vita in ogni cosa.

Per cui, l’aldilà non è una nozione spazio-temporale lontana, in un altro posto, in un altro mondo. L’aldilà è qui e ora, nel momento in cui vivo, dietro e attraverso ciò che vivo.

E’ il presente esteso, aperto anche quando il quotidiano può essere stressante.

Solo così potremo godere di una vita allo stesso tempo più leggera, più profonda, più ricca e, soprattutto, più felice, anche se il cammino è irto di difficoltà, di cambiamenti e di crisi ….

 

“Siamo ciechi,

accecati dal visibile ..”

M.A.De Souroge

Le trappole della “buona educazione”

$
0
0

mano bambino.jpg

Da bambini abbiamo spesso sentito queste frasi: “Sii buona, metti in ordine la stanza”, “Sii buona, vieni ad aiutarmi in cucina”, “Fai la brava, portaci dei bei voti”, “Fai il bravo mettiti la camicia per andare a trovare la nonna”.

Questo è quello che abbiamo sentito con le nostre orecchie da bambino. Tuttavia quello che abbiamo codificato dentro di noi è tutt’altra cosa. Spesso abbiamo inteso: “Ti voglio bene solo se metti in ordine la stanza”, “Ti voglio bene solo se mi aiuti quando ho deciso che devi aiutarmi”, “Ti voglio bene solo se hai successo ed otterrai dei risultati”, “Ti voglio bene solo se ti vesti come dico io”.

Con questo non voglio dire che queste persone abbiano detto veramente “Ti voglio bene solo se …” e nemmeno che in realtà lo abbiano voluto dire, affermo semplicemente che è quello che noi abbiamo sentito ed interiorizzato ed è qui che nascono poi le difficoltà e i disagi.

Quindi cosa succedeva nei nostri cuori di ragazzi quando ci sentivamo così: “io non ho bisogno di riordinare la stanza, amo il mio allegro disordine, esprimo la mia identità di adolescente e questo non significa che, una volta cresciuta, non amerò l’ordine. Ho bisogno di fiducia nella mia capacità di crescita ed evoluzione …”; “Sono proprio stufa di essere sempre io quella che aiuta la mamma in cucina perché sono così gentile. Ho bisogno di equità e reciprocità, vorrei che a volte lo chiedessero anche a mia sorella”; “Non posso prendere dei bei voti a scuola, non ci capisco nulla in matematica e non c’è nessuno che mi spieghi il significato di questa materia …”

Cosa succedeva nel nostro giovane cuore quando ci sentivamo così? Osavamo esprimerlo, fiduciosi che saremmo stati ascoltati, capiti e rispettati per la nostra diversità e la nostra identità? La maggior parte delle volte, ci saremmo fatti schiacciare dalla gentilezza per non disturbare, piuttosto che vivere un rifiuto, un allontanamento. Il bisogno d’amore, di sicurezza affettiva è assolutamente prioritario per il bambino.

Vi sono bambini picchiati, o vittime di abusi, che trovano ogni genere di scusa al comportamento dei loro genitori per non compromettere il loro legame affettivo e spesso impiegano moltissimo tempo a riconoscere ed accettare la rabbia che provano nei confronti dei loro genitori. E’ molto difficile per loro abbandonare il pensiero: “Se sono arrabbiato con i miei genitori, infrango la regola che vuole che amino sempre i propri genitori e corro il rischio che non  mi amino più”, entrando nell’ottica : “sono e arrabbiato con i miei genitori, e li amo e, per me, è importante il loro amore”. Solo scontrandosi ed esprimendo la loro rabbia consapevolmente possono disinfettare la ferita e lasciare che cicatrizzi.

Fortunatamente non tutti siamo stati vittime di abusi o percosse; tuttavia, siamo spesso prigionieri di questa cieca lealtà che ci fa temere di perdere l’amore quando c’è disaccordo.

Il disaccordo non è mancanza d’amore!!

Così,abbiamo imparato, non ad ascoltare, a capire e a gestire le nostre frustrazioni, ma a tacerle se non a ricacciarle completamente nell’inconscio. Abbiamo imparato a fare le cose non per amore, ma per dovere; non per il gusto di contribuire, ma per la paura del rifiuto, non responsabilmente, ma per senso di colpa.

Abbiamo imparato a chiudere il coperchio della pentola a pressione e a lasciarla sul fuoco finchè non esplode o implode. Così funziona la meccanica dei condizionamenti messi in atto dall’amore condizionato.


Nei post successivi proveremo ad individuare i diversi ingranaggi di innesco di queste trappole antifelicità ….. se ti va continua a seguirmi ...

Abbiamo imparato a Fare piuttosto che a Essere ….

$
0
0

fare3.jpg

photo by: http://www.flickr.com/photos/goddess_spiral/3198229212/


Continuo il post precedente cominciando ad indagare gli ingranaggi che ci intrappolano in strade chiuse e soffocanti anziché farci scivolare su dolci pendii verso la nostra meta: la Felicità.

“Riordina la tua stanza, metti il vestito nuovo, aiutami in cucina, impegnati a scuola …”. Quante cose abbiamo imparato a fare per essere amati!

“Ti voglio bene solo se fai, agisci, rispondi e corrispondi, se ottieni risultati …”. Così inizia la corsa alla perfezione.

Provate ad ascoltarvi e a rispondervi con sincerità: sentite questa credenza , essere amati per ciò che fate e non per ciò che siete? Temete di essere biasimati, rifiutati e di dovervi vergognare se non siete sempre pronti a fare qualcosa? Non è faticosa questa corsa alla perfezione per piacere a tutti evitando di dispiacere a qualcuno?

Molta della stanchezza, dell’angoscia, del senso di colpa e della depressione all’interno di coppie, di famiglie e in ambiente professionale, si possono spiegare attraverso questa insicurezza affettiva di base che io stessa ho vissuto in  prima persona e che ora ascolto molte volte dai miei clienti espressa più o meno in questo modo: “ non mi sono mai sentita amata incondizionatamente, amata per come sono, per la mia unicità. Ho interiorizzato che bisogna fare un mucchio di cose per ricevere amore. Per questo, non smetto di correre da una cosa all’altra, per essere amata, accettata, gratificata, per trovare il mio spazio. E, in fondo, se mi guardo bene dentro, nemmeno io stessa riesco a darmi un riconoscimento, a darmi lo spazio che mi serve né tanto meno ad amarmi, se non lavorando 10 ore al giorno, occupandomi di mio marito e dei miei figli, proseguendo di sera la mia formazione, mantenendomi in forma facendo sport, mantenendo un’assidua attività sociale … etc….”

Provate a verificarlo voi stessi ponendovi questo interrogativo: “Se mi sentissi veramente e profondamente sicura di me, totalmente rassicurata dal fatto che sono amata e rispettata per come sono, con i miei difetti e le mie qualità, e se mi volessi bene io stessa in modo così solido, con le mie luci e le mie ombre, non farei un po’ meno per assaporare di più il mio essere???”.

Chi non si è mai trovato un giorno perdutamente immerso in un sgono ad occhi aperti, fantasticando sulla meraviglia di essere leggeri? Chi di noi non ha mai cercato di decifrare il labirinto di maglie blu su un tappeto di lana rossa o ancora riconoscere un volto o una persona nella geometria di un pavimento, senza farsi risvegliare bruscamente dalla sua piacevole fantasticheria da un “ma che fai lì impalata, fa qualcosa”?

Questa prima trappola del Fare è molto potente in quanto, nella nostra cultura occidentale, non c’è praticamente posto, né riconoscimento per altri modi di vivere che non siano attivi e debitamente elencati nel catalogo della produzione di beni e servizi.

Chi lavora dieci ore al giorno , sei giorni su sette, saltando di riunione in appuntamento, è una persona responsabile, che impressionerà. Chi lavora quattro giorni a settimana invece di cinque per avere più tempo per i suoi figli o il suo orto viene visto come uno stupido sempliciotto.

Secondo me, questo punto di vista permette di comprendere il meccanismo su cui si basa la nostra società, in cui l’umanità e le relazioni sono messe in secondo piano rispetto all’azione, alla produzione e all’organizzazione.

Chi riceve più considerazione sociale e finanziaria, un banchiere o una maestra della scuola materna? Un avvocato o un educatore di strada? Un imprenditore o un insegnante? Un politico o un ‘infermiera?

Chi dispone di un budget più alto, di tutte le risorse materiali e umane di cui necessitano per funzionare al meglio: gli asili, le scuole, le case di riposo per gli anziani, gli ospedali o gli uffici, le grandi imprese, le aree commerciali o industriali?

La scelta di queste priorità è per me fortemente legata alla nostra abitudine culturale di valorizzarci tramite l’azione, la performance e i risultati, L’educazione ci allontana da noi stesso più spesso di quanto non ci inviti all’interiorità. Dedicare tempo alle nostre relazioni, godere della compagnia degli altri, immaginare qualsiasi cosa, meditare, interiorizzare o anche solamente non fare niente, tutto questo è stato a lungo definito come ozio, padre di tutti i vizi, della pigrizia e persino del disadattamento sociale” Sei una dolce sognatrice …. Ma la vita è dura , se continui così, non sopravvivrai. Bisogna lottare per vivere!”.

Attenzione, non intendo con questo dire che dobbiamo semplicemente Essere, perché non c’è niente che valga la pena di Fare. Da un lato, dico che possiamo certamente agire, fare molte cose, perché se non andiamo incontro a quello che desideriamo, corriamo fortemente il rischio di farci ostacolare da quello che non vogliamo, o di non arrivare da nessuna parte. Se non coltiviamo i nostri fiori, i nostri legami, è probabile che il giardino sarà invaso da rovi ed erbacce. Inoltre c’è molta gioia nel dedicarsi a tante attività.

D’altra parte, dico che, sentirsi viva solo facendo mille cose, è costeggiare senza accorgersene un giacimento di benessere, di soddisfazione interiore e di felicità gratuito e a portata di mano. E’ camminare, senza saperlo, sul tesoro che cerchiamo.

Se sintetizziamo all’estremo l’intento primario di tutte le  nostre azioni, non cerchiamo tutti, qualunque cosa facciamo, la soddisfazione profonda dell’essere? Tuttavia è raro rimanere a lungo consapevoli del fatto che qualunque cosa facciamo e qualsiasi siano le nostre motivazioni, anche le più altruiste, quello che cerchiamo è sempre il nostro benessere interiore e che tutte le domande, le azioni, i comportamenti e le strategie messe in atto per raggiungere questo scopo, sono al servizio di questo.

La maggior parte di noi, non sapendo che è questa profonda soddisfazione che desidera non cerca nel posto giusto, né al momento giusto, né nel modo giusto. Si ritrova così nei panni del tizio della storiella che cerca le chiavi di notte sotto un lampione. Un passante gli chiede cosa sta facendo “Cerco le mie chiavi”, gli risponde. Il passante si mette a cercare insieme a lui, poi un latro si unisce a loro, poi un altro e un altro ancora. Tutte queste persone si agitano e si danno da fare incrociandosi sotto il lampione, fino a quando uno dei passanti chiede: “Ma siete sicuro di averle perse qui?”, “no, risponde l’uomo, ma qui almeno c’è più luce?”.

Come quest’uomo, noi puntiamo, la maggior parte delle volte all’evidenza, cioè dove c’è più luce: facciamo quello che bisogna fare e troviamo raramente quello che speriamo di trovare!.

In fondo è come se dicessimo:” Cerco dove è più facile cercare: c’è un bel lampione fisso, una semisfera di luce ben delineata, un selciato facile da esplorare. Questo mi dà un contegno, un alibi”.

In questa metafora, il lampione è la nostra piccola coscienza immersa nell’immensa notte dell’inconscio; la zona illuminata, quello che conosciamo o crediamo di conoscere del mondo e di noi stessi; il selciato, le nostre abitudini, i nostri sentieri più battuti.

Quello che cerchiamo, le nostre chiavi perse tra l’erba, i cespugli, i canali di scolo lì vicino, è lì ed aspetta. Quello che cerchiamo è sempre lì ad aspettarci, aldilà del recinto delle cose che vediamo, facciamo, conosciamo e proviamo.

Abbiamo paura dell’intensità dell’essere, ma è proprio quella che ci manca. Curiosamente, se non mettiamo l’intensità dell’essere al centro della nostra vita, è sempre lei che cerchiamo di raggiungere, a volte insaziabilmente, con la nostra corsa . Ci ritroviamo così nell’iperattività professionale, sociale e familiare, sportiva o mondana, una sorta di stordimento organizzato che procura un’impressione periferica di intensità, senza però nutrire in profondità né tanto meno saziare.

In definitiva abbiamo paura dell’intensità, paura di perderci dentro, di dissolverci. In effetti, abbiamo imparato a sminuirci, a non disturbare, a non fare troppo rumore, a diffidare del nostro slancio e del nostro entusiasmo. Non abbiamo imparato a vibrare all’unisono con la vita vivendo appassionatamente i nostri slanci.

“E’ la nostra luce, non il nostro buio ciò che ci spaventa: siamo smisuratamente potenti …” (Nelson Mandela). Presi come siamo ad essere benevoli e gentili, questa forza che preme dal basso ci fa paura. Spesso, persino prima di averla sperimentata, battiamo in ritirata, ritornando al nostro modo di essere e, soprattutto di fare, più rassicurante perché abituale.

Gli altri hanno paura della nostra intensità poiché hanno paura della propria. Saremo spesso divisi nel nostro cammino tra la voglia di avanzare e la tristezza di lasciare andare lungo la strada delle amicizie a cui tenevamo o degli incontri, che la paura dell’intensità potrebbe compromettere.

La soluzione?? Nessuna bacchetta magica ….

Se percorriamo la strada che porta verso l’autostima e l’amore incondizionato per noi stessi, riusciremo sempre più facilmente a stabilire le nostre priorità e ad instaurare nelle nostre vite dei ritmi a noi più congeniali.

Più rispetteremo le nostre scelte e i nostri ritmi, più ci apriremo a rispettare quegli degli altri.

Più siamo veramente presenti a quello che facciamo, meglio lo facciamo. Più questo ci soddisfa, meno sentiamo il bisogno di “fare troppo”. E’ meno faticoso e migliora la qualità della nostra vita.

E in ultimo vi lascio con una domanda, la cui risposta sincera potrebbe aprire nuove vie “continuo ad introdurre sempre più cose da fare nella mia vita o ad introdurre sempre più vita nelle cose che faccio?” …..

 

“ L’identità umana non è semplicemente

un confortevole luogo di soggiorno, ma una

interrogazione permanente – in che modo

essere e in che modo esserci” ..”

Vaclav Havel


Nel prossimo post la seconda trappola …..

Sguardo dell’altro e fragilità personale …..

$
0
0

fiducia in sè,bisogni,rispettarsi,rispetto per gli altri,felicità,celebrazione,benessere

Il “ti voglio bene solo se …” ha spesso impresso in noi la dipendenza o, quanto meno, la fragilità in rapporto allo sguardo dell’altro. Abbiamo acquisito inconsciamente l’abitudine a credere che fossimo amati per le nostre azioni, le nostre competenze, i nostri risultati, e non per noi stessi e così abbiamo lasciato che molti nostri atteggiamenti fossero appiattiti dalla paura di essere giudicati, criticati, rifiutati, invece di lasciare che fossero l’espressione gioiosa della nostra personalità e della nostra creatività: “cosa penseranno di me se dico questo e penso quest’altro, se mi vesto in un modo e mi pettino in un altro, se oso fare questa cosa o quell’altra?”

Tutti conosciamo persone, quando non lo siamo noi stessi, che allineano la propria vita su questo criterio: cercare di piacere, evitare ad ogni costo di non piacere, fare tutto come “si deve”.

Molte di loro, poi, si stupiscono di essere sempre alla ricerca, sempre in attesa e di non essere mai felici. Come potrebbero esserlo? Come potrebbero essere interiormente soddisfatte se tutte le loro aspettative sono esteriori?

Credo che sia impossibile essere felici senza accettare a volte il disagio di non piacere a tutti. Con ciò, di certo, non invito nessuno a cercare deliberatamente di non piacere a qualcuno; propongo, invece, di mostrare rispetto e considerazione per l’altro senza rinunciare a se stessi. Esistono molte persone che pensano si manchi loro di rispetto quando non facciamo quello che vogliono o che trovano giusto. Esse perpetuano, loro malgrado, la confusione tra bisogno e richiesta, tra richiesta negoziabile e pretesa.

In fondo, non credo che potremmo mai godere della sicurezza e della dolcezza di essere fedeli nei confronti degli altri e della vita, se non fossimo fedeli nei confronti della prima persona con cui siamo in relazione, cioè noi stessi.

Se aspettiamo di piacere a tutti e di essere sicuri di non deludere nessuno, rischiamo quasi sicuramente di mancare la nostra vita, come delle brave ragazze o dei bravi ragazzi, molto saggi, che si annoiano pazientemente senza osare nemmeno dirselo.

Rispettarsi, non significa fare tutto quello di cui si ha voglia, né assecondare tutti i propri desideri. Rispettarsi, è allo stesso tempo ascoltarsi, capirsi e rendere giustizia ai propri veri bisogni, nascosti dietro i desideri e le voglie; significa anche accettare il disagio di stabilire delle priorità, la difficoltà di rinunciare e di scegliere, la difficoltà di vivere dei disaccordi.

Rispettare l’altro, è esattamente la stessa cosa: non significa fare tutto ciò di cui ha voglia, né assecondare tutti i suoi desideri. Rispettare l’altro, è ascoltarlo, capirlo e rendere giustizia ai suoi veri bisogni; significa anche accettare il disagio di porre delle priorità, di rinunciare per scegliere, si non essere sempre d’accordo.

Ascoltare il proprio slancio e seguirlo, imparare ad avere autostima e fiducia, cambiare quello che c’è da cambiare e abbandonare quello che c’è da abbandonare, con fermezza e benevolenza, cercando di rispettare l’altro e se stessi.

Credo che a volte per crescere ci occorra ritornare ad essere un bambino esitante, balbettante, ai primi passi, per permetterci veramente di imparare cose nuove. E non è facile! C’è una parte di noi che adora rinchiudersi comodamente nelle sue abitudini e nelle sue certezze e che preferisce tenere chiusa la porta dell’apprendimento.

Ho osservato che, sostanzialmente, le persone non si danno fiducia, agiscono spesso controllando la loro vita e quella dei loro cari. Si aspettano che gli altri funzionino come hanno deciso loro.

Ancora una volta tutto questo ha una sua spiegazione: la sicurezza è un bisogno fondamentale, se non la cerchiamo in noi, nei punti di riferimento interiori, nella fiducia profonda in noi stessi e nella vita, rischiamo di cercarla all’esterno, attraverso il controllo e la programmazione. Queste persone, raramente si sentono profondamente felici …  Dipendono dal loro ambiente, che naturalmente, non asseconda sempre i loro programmi e non si sottomette costantemente al loro controllo, né alla loro volontà.

Naturalmente, la fiducia e la stima in se stessi non si decretano per legge. Non si tratta solamente di un’idea o di una decisione, ma di una pratica quotidiana che comporta:

  • Accettare ed elencare lucidamente quello che sentiamo non funzionare in noi, per esempio: “ in fondo, non ho fiducia in me stessa. Se l’altro parla più forte di me, se l’altro ricopre un ruolo di autorità, io mi ritiro”.
  •  Identificare i sentimenti e i bisogni che a volte possono essere mescolati e confusi.
  • Lasciare che le priorità si chiariscano in termini di bisogni fondamentali.
  • Tendere verso questi bisogni/priorità con infinita benevolenza per i primi passi, spesso esitanti e poco soddisfacenti.
  • Prendersi il tempo di celebrare i micromovimenti, i micro cambiamenti che si producono in noi e nutrirsene come se fossero vitamine. Ricordiamoci sempre che siamo noi la nostra migliore amica/amico. Se non siamo noi stessi ad incoraggiarci per primi come potremo ascoltare gli incoraggiamenti degli altri?

E’ solo accettando di accogliere il disagio di cambiare, di affrontare gli sguardi e i commenti degli altri “Sei cambiata, non sei più quella di prima …” di addomesticare le nostre paure, che possiamo ritrovare il ben-essere e – udite udite!! – creare ben-essere intorno a noi ….

 

“ Quando il mio percorso è duro e

accidentato, quando gli altri non

capiscono dove vado né perché ci sto

andando, non significa che mi sto sbagliando ..”

A. Levy-Morelle

Bravi ragazze e bravi ragazzi non abbiamo imparato a dire né a sentirci dire “NO”

$
0
0

dire no.jpg

Il titolo espone un'altra grande trappola che troviamo sulla strada per arrivare alla felicità. Ci siamo abituati a credere che fossimo amati per ciò che facevamo e non per ciò che eravamo. Così abbiamo preso l’abitudine di dire sì anche quando pensiamo no e di fare tante cose per comprare l’affetto e la riconoscenza.

Non abbiamo imparato a dire “No” quando lo volevamo, ed ancora meno adirlo con disinvoltura e senza aggressività. Di conseguenza, abbiamo spesso accumulato così tanti “Sì” insinceri, che finiamo, come una pentola a pressione sul fuoco, per esplodere, strillando un aggressivo “No!” in faccia al primo che capita, oppure implodiamo cadendo in preda allo sfinimento, al burn-out o alla depressione, o ancora ci assestiamo nella lamentosa litania della vittima, credendoci sfruttati da tutti e senza nessuna colpa.

E ci ritroviamo infelici! Innanzitutto, perché non siamo riusciti a dire “No” al momento giusto, né alla persona giusta; poi perché siamo esplosi così aggressivamente, spesso riversando le nostre frustrazioni accumulate, sulla persona sbagliata, che diventa il nostro capro espiatorio. Infine, perché noi stessi ci condanniamo senza pietà e senza appello.

Imparare a dire “No” non è facile (leggi qui )Per riuscire a dirlo in modo affermativo e non aggressivo, si tratta innanzitutto di ascoltare il bisogno dell’altro senza credersi immediatamente obbligati a soddisfarlo. Possiamo certamente contribuire alla sua soddisfazione per piacere, per desiderio, per amore, ma rimanendo consapevoli del fatto che l’altro è pienamente responsabile dei suoi bisogni.

Si tratta poi di ascoltarsi, per riconoscere i propri bisogni e, tra questi, le proprie priorità. Questa operazione consiste nel concedersi tempo e spazio. E non c’è niente che faccia così paura alle persone! Infatti, fare, agire, rispondere “sempre pronta!”, correre da tutte le parti per provare a guadagnarsi o mantenere l’approvazione degli altri, è molto spesso, inconsciamente, un modo di evitare di rimanere soli con se stessi. E’ un modo corretto, sul piano sociale e familiare, di essere nella fuga e non nell’incontro, e questo, sotto la più lodevole denominazione di dovere o di attenzione verso gli altri.

In fondo, non si tratta tanto di imparare a dire “No”, quanto di imparare a non fuggire né a rifuggire la relazione autentica. Con questo voglio sottolineare che si può andare incontro agli altri e dedicarsi alle proprie occupazioni e allo stesso tempo prendersi cura di sé e del proprio essere, senza cercare in ogni modo di fuggire e trascurare i propri bisogni.

Se poco alla volta ci sentiamo sempre più a nostro agio nel dire “No” quando vogliamo, può darsi che ci resti ancora da sviluppare la capacità di accogliere il No dell’altro, quando ci confrontiamo con esso.  La vita nel momento in cui decidiamo di VIVERLA non ci risparmierà questo disagio:nessuno ci dirà Sì tutte le volte, e questo potrebbe essere spesso difficile da vivere.

Il pericolo è quello di rinunciare a noi stessi quando l’altro dice No, per sottometterci alle sue aspettative, oppure di interpretare il No come un rifiuto e quindi di ribellarci contrattaccando. Si crea così fuga o aggressione, di certo non l’incontro.

Quando l’altro ci dice No raramente ascoltiamo tranquillamente i suoi bisogni, ciò a cui dice di Sì, quando pronuncia un No.

Facciamo poi fatica a far valere i nostri bisogni per trovare una soluzione equa per entrambi. Ascoltare l’altro e trovare una soluzione rispettosa dei bisogni di entrambi, non sempre è comodo. Può volerci molto tempo, e costringerci a rinunciare a quello a cui teniamo o a lasciare la presa.

Abbiamo spesso la tendenza a privilegiare la facilità di argomentazioni, espresse come una raffica di proiettili del tipo “Ho ragione perché ….. Hai torto perché …..”; come in guerra, questo scambio di proiettili mira a spostare l’altro dalla sua posizione con la forza. Oppure preferiamo la facilità della rinuncia, con propositi del tipo “ Ok, ok, d’accordo, hai ragione. Lascio perdere e non ti chiedo più niente”, che puntano a trovare la pace attraverso la diserzione. In entrambi i casi siamo infelici per la nostra aggressività o per la nostra passività.

Negoziare o convivere con il No dell’altro, con determinazione e assertività, è tutta un’altra storia!

Così riuscire a dire “No”, in modo cosciente e non telecomandato dall’inconscio, come accettare il “No” dell’altro, presuppone il disagio di conoscersi nelle proprie fragilità e contraddizioni, di accogliersi nella propria impotenza e frustrazione, di sentirsi combattuti o lacerati tra scelte difficili.

Assumersi la responsabilità dei propri “No”, come dei propri “Sì”, accettando anche quelli degli altri, ci rende allo stesso tempo liberi e responsabili delle proprie scelte. Ecco secondo me la fonte di una delle più grandi gioie: il decidere della propria vita osando anche il rifiuto . E non vedo come potremmo vivere questo senza attraversare con coraggio ogni tipo di disagio.


Padroneggiare le emozioni …

$
0
0

gestire emozioni.jpg

Come abbiamo visto nei post precedenti, abbiamo imparato a Fare e a correre, non ad essere, e ad Essere con le nostre emozioni, sia quelle piacevoli che quelle spiacevoli. Infatti è raro farle vivere dentro di noi e soprattutto riuscire a utilizzarle e padroneggiarle in modo utile per il cambiamento.

Brave ragazze e bravi ragazzi, abbiamo troppo spesso imparato a separarci dalle nostre emozioni, a diffidarne, in ogni caso, per non essere “troppo emotivi” e agendo in questo modo abbiamo finito per farci manipolare da loro.

Ricordiamoci che le emozioni di cui non ci occupiamo, si occupano di noi. Nel mio lavoro di Counselor ho incontrato molte persone che soffrono perché non riescono a capirsi, né a farsi capire, perché hanno difficoltà a padroneggiare quello che agita, schiaccia, lacera o svuota il loro cuore.

Tuttavia c’è sempre tempo per imparare!!

Se vogliamo acquisire la padronanza delle nostre emozioni per godere di un ben-essere profondo occorre conoscere bene le nostre emozioni, occorre accettare di azzuffarsi aspramente e schiettamente con loro. La padronanza non significa il rifiuto, né l’allontanamento, né il controllo; significa la capacità di farne un uso accorto.

Padroneggiare le proprie emozioni non significa soffocarle; significa piuttosto conoscerle per usarle in modo consapevole.

Pensate forse che sia possibile padroneggiare uno sport, una lingua straniera, uno strumento musicale o un’automobile senza esercitarsi spesso e con coscienza? Naturalmente, oggi, se praticate uno sport da molti anni, se parlate fluentemente una lingua, fate tutto questo in modo inconscio. Fate le vostre discese con gli sci, o i vostri percorsi a cavallo senza riflettere consciamente su ogni gesto ed ogni movimento, pensate e a volte sognate in un’ altra lingua, innescate la marcia e ripartite in modo del tutto automatico. In breve, attraverso l’allenamento, siete diventati inconsciamente competenti, cioè, padroneggiate ora quella cosa senza più alcuna fatica. Questo è il risultato del processo di apprendimento, le cui sequenza sono descritte in modo particolarmente illuminante dalla PNL (Programmazione Neuro Linguistica )

Come per ogni tipo di apprendimento, anche in questo caso, bisogna attraversare diversi stadi:

  • Stadio 1 => siamo inconsciamente incompetenti, crediamo di padroneggiare la cosa, quando invece non abbiamo ancora alcuna idea di come funzioni. Per esempio il bambino che sale sulla moto del padre, farà “bruum bruum” credendo veramente di guidarla; l’adolescente canterà a memoria canzoni in inglese e crederà di sapere la lingua.
  • Stadio 2 => siamo consciamente incompetenti, di fronte all’apprendimento reale ci rendiamo conto della nostra ignoranza. Per esempio ,il bambino ,cresciuto, si accorgerà che dovrà veramente imparare ad andare in moto in mezzo al traffico e si renderà conto di quanto sia diverso dal fare “bruum bruum”; l’adolescente che inizierà a frequentare un corso d’inglese, capirà che costruire una frase richiede del lavoro.
  • Stadio 3 => consciamente competenti, abbiamo acquisito tutti gli elementi per districarci, ma la messa in pratica richiede ancora una grande concentrazione. Per esempio, il nosro giovane motociclista passerà consciamente dalla prima marcia alla seconda, accenderà in modo consapevole la freccia destra per girare, interpreterà attentamente ogni segnale stradale; il nostro adolescente, comincerà consciamente a creare delle frasi in inglese , verificando interiormente la corrispondenza di ogni parola.
  • Stadio 4 => siamo finalmente inconsciamente incompetenti, l’apprendimento è integrato e ci permette di non dover più riflettere su ogni sequenza. Per esempio, il nostro motociclista si insinuerà abilmente in mezzo al traffico, cantando l’ultimo pezzo in voga, e programmando gli impegni della giornata, divenuto studente, esporrà con successo la sua tesi in scienze politiche davanti alla commissione della sua università britannica!

Mentre faremo pratica della conoscenza di noi stessi e della relazione nessuna di queste tappe ci verrà risparmiata. Qualunque percorso di crescita intraprendiamo , counseling – psicoterapia , conosceremo queste tappe in modo ciclico. Ogni volta che ne supereremo una, apprezzeremo sicuramente il piacere di essere divenuti inconsciamente più abili, cioè più competenti.

Se evitiamo di rinchiuderci in quella che potrebbe essere definita “la presunzione di credere di sapere” e di aprirci all’apprendimento del nuovo e del diverso, la vita ci darà l’occasione di andare di scoperta in scoperta.

Questa evoluzione attraverso cicli successivi, per quanto sia soddisfacente e per quanto crei ben-essere, è lungi dall’essere sempre piacevole: in effetti implica l’essere continuamente in cammino.

Ritornando all’apprendimento delle emozioni una cosa è certa, sia che si tratti di emozioni piacevoli, sia che si tratti di emozioni spiacevoli, per arrivare a padroneggiarle dovremo attraversare delle difficoltà. Questo ci permetterà di intravedere un modo di essere che va oltre lo stato emotivo, una condizione di quiete interiore che non nega né reprime le emozioni, ma le accoglie e le lascia sviluppare, senza rimanere invischiati al loro interno.

 

Sul “senso di colpa” e sul “dovere” …

$
0
0

 senso di colpa,doveri,giudizio,credenze,insicurezza affettiva

I concetti di “senso di colpa” e di “dovere” generano ripetute e profonde sofferenze in noi, poiché intrappolano il nostro slancio vitale invece di promuoverlo. La difficoltà a prendere coscienza di cosa il senso di colpa e il dovere nascondono, nasce dal fatto che entrambi, sono animati dalle migliori intenzioni: “E’ mio dovere…”, “Dovrei …”.

Io stessa ho per lungo tempo funzionato nella colpa e nel dovere e conservo di quel periodo della mia vita l’impressione di una profonda divisione. Ogni persona poi che ho incontrato, nella mia professione di Counselor, affermava anch’essa di sentirsi divisa e lacerata.

Il senso di colpa non solo ci ostacola, ma ci blocca e ci consuma interiormente. Se non ce ne prendiamo cura, può trasformarsi in una palude, in un pantano dentro il quale la nostra vita sprofonda e rimane invischiata inesorabilmente.

Il senso di colpa è una combinazione di diversi meccanismi disfunzionali tra cui:

  • Giudizio => su se stessi, sugli altri, sulla situazione o sulla vita: “Sono un egoista, dovrei …”
  • Credenze e pregiudizi => nei confronti di se stessi, degli altri, della situazione, della vita: “I miei figli non ce la faranno mai da soli . Devo …”
  • Pensiero binario => “per prendersi cura degli altri ci si deve scollegare da se stessi ..”
  • Linguaggio deresponsabilizzante => “Bisogna, è così! In veste di buona madre, buon capo, buona insegnante, ecc…., devo …”
  • Insicurezza affettiva => per mancanza di autostima e per dipendenza dallo sguardo degli altri: “Dovrei farlo, altrimenti cosa penseranno di me?”
  • Incapacità di accettare la nostra diversità e la nostra unicità => “Tutti gli altri fanno così. Non mi sembra giusto fare diversamente”.
  • Difficoltà a dire e accettare i “No” => “Quando dico sì, ma in realtà penso no, mi sento in colpa nei confronti di me stessa, perché non mi rispetto. Quando dico no, e lo penso, mi sento in colpa nei confronti dell’altro, perché non è gentile da parte mia …” “Quando l’altro mi dice no, mi sento in colpa verso di lui perché non avrei dovuto fargli la mia richiesta: l’ho disturbato, ce l’avrà con me … Mi sento in colpa anche nei miei confronti. Perché mi faccio sottomettere subito, senza nemmeno provare a continuare la discussione in modo deciso e sereno ..”

Contrariamente alle nostre credenze abituali il senso di colpa non è un sentimento, bensì un giudizio: non ci sentiamo colpevoli, ci giudichiamo colpevoli.

Secondo i nostri usi, le nostre tradizioni morali e il nostro sistema giudiziario, i colpevoli vanno messi in prigione. Così, la parte di noi che giudichiamo colpevole è agli arresti. Non stupisce, quindi, che la nostra vitalità sia ostacolata, immobilizzata. Siamo allo stesso tempo prigionieri e carcerieri della nostra colpa.

Ricordiamo, infatti, che ogni tipo di giudizio rinchiude, limita, blocca, e così facendo, impedisce di entrare in contatto con la realtà, che invece è sempre in movimento e in via di cambiamento.

In fondo, la colpa ci rinchiude e ci impedisce di essere veramente responsabili. Dicendoci “Mi sento in colpa per …” pensiamo di ascoltarci, mentre invece ci scolleghiamo da noi stessi. Se ci ricolleghiamo possiamo sentirci lacerati, divisi, delusi, in collera, a disagio nei confronti dei nostri bisogni di responsabilità, di attenzione, di rispetto, di solidarietà ..

Tuttavia un’analisi sincera delle emozioni e dei bisogni che coesistono, ci potrà aiutare a riconciliare i due lati di noi stessi che sono in conflitto.

Questa riconciliazione, a sua volta, stimolerà la dinamica della responsabilità, che ci permetterà di uscire dalla palude o dalla prigione.

Quando non seguiamo la nostra strada, soffriamo. Se non ascoltiamo la nostra sofferenza e non ce ne prendiamo cura, la vita ci lancia dei segnali sempre più forti per risvegliare la nostra coscienza, per sopperire alla nostra distrazione.

Immaginate di volere svegliare una persona che sta dormendo. Inizierete a sussurrargli qualche parola all’orecchio, poi, se ancora non si sveglia, parlerete ad alta voce. Se dorme ancora, la sfiorerete lievemente con la mano. Se rimane addormentata, la scuoterete vigorosamente. Se dopo tutto questo, dorme ancora, la tirerete giù dal letto gridando: “Svegliati!”.

Noi siamo la persona che dorme, e la vita ci invita al risveglio, alla coscienza, con dolcezza. Se non diamo ascolto alla dolcezza, la vita, non tarderà a svegliarci in qualsiasi altro modo …..

Il bello di perdersi … è di poter ritrovare la strada …

$
0
0

sentiero 2.jpg

Ti sei mai perso? …

Tutti noi ci perdiamo lungo il cammino della vita. E’ sicuramente un sentiero lungo, a volte duro, a volte meno, altre volte triste e doloroso, oppure felice e sereno.

Tuttavia perdersi è necessario. Non saresti dove sei adesso se non avessi mai smarrito la strada.

Perdersi è come venir bendati; ci si immerge nel buio e nell’ombra, dimenticando i colori e le forme di quello che ci sta intorno.

Però quella benda non è eterna, devi semplicemente trovare il coraggio di toglierla, ed è una decisione soltanto tua.

Tu decidi: hai deciso quando metterla e devi decidere se toglierla. Quando finalmente inizi a renderti conto che una scelta sbagliata non ti sta portando in alcun luogo, allora diventa fondamentale decidere, e la tua decisione porterà un grande cambiamento.,

Spesso ci chiediamo che senso abbia il caos nella nostra vita. Anche nel caos c’è logica. La sua logica è quella di farsi comprendere permettendoci di pianificare le nostre scelte e decisioni: il caos serve a portare in noi la consapevolezza necessaria per uscirne e cambiare.

Hai mai provato a osservare il disegno di un arazzo guardandolo a rovescio mentre viene creato?

E’ indecifrabile, ed è a dir poco improbabile che tu riesca a vederne il disegno. Quando siamo immersi nel caos, quando ci perdiamo, stiamo semplicemente guardando da un punto di osservazione sbagliato.

Ed è come se i nostri occhi non riuscissero a vedere, perché offuscati da una prospettiva errata.

La bellezza di ritrovare la strada, di recuperare la giusta prospettiva è direttamente proporzionale a quanto tempo abbiamo trascorso nel caos e nelle difficoltà di un sentiero sbagliato.

Apprezzerai molto di più la rosa solo dopo aver percorso il suo gambo spinoso. Così come sarà più intenso e appagante il sapore del miele, dopo che per tanto tempo ti sarai nutrito di radici amare.

Per ogni uomo è una benedizione ritrovare la strada, come pure perderla, se da quell’errore può nascere un giorno una grande scoperta: un tesoro personale fatto di saggezza e di una più elevata consapevolezza …

 

“ Le persone sono come le bustine del tè.

Non conoscono la loro forza finche non vengono

immerse nell’acqua bollente ..” D.Mc Kinnon

L’importanza di tornare ad essere …..

$
0
0

bambini felici 2.jpg

Guardiamo ai bambini come a dei vasi vuoti che devono essere riempiti con quel che siamo noi. E’ necessario invece imparare da loro come tornare ad essere noi un vaso vuoto.

Cerchiamo costantemente di cambiare gli altri secondo la nostra natura. Ogni persona diventa più bella ai nostri occhi, più interessante se riusciamo a trasferire in le un po’ di noi.

Così, in quel legame, nasce un senso di soddisfazione, ci sentiamo appagati.

Di fronte ad ogni situazione, di fronte ad ogni persona si innesca immediatamente il giudizio, spesso involontario, a un livello profondo, ma che ha in sé la capacità di attivare il nostro schema di reazione: come posso far cambiare ciò che è qui davanti a me? Come posso renderlo un po’ più simile alle mie aspettative?

E’ un percorso contorto, frustrante, che non ci porta da nessuna parte. Semplicemente così aumentano la tristezza, il risentimento, perché ci rendiamo conto di quanta energia sprechiamo nel cercare di cambiare gli altri, plasmandoli sul nostro modello.

E’ necessaria una inversione di rotta!

E’ necessario imparare a spogliarci di tutto quello che siamo e di quanto cerchiamo di essere in funzione dell’esterno.

I bambini ci insegnano quanto sia importante tornare ad essere “un vaso vuoto”. Quando inizi a lasciare andare, a rimuovere strato dopo strato, con pazienza e costanza, quello che non serve, arrivi ad eliminare ciò che fino a quel momento ti aveva tenuta chiusa in uno stanzino, al buio, spaventata dal mondo.

Quel personaggio fittizio che si era sostituito a te, e che era diventato te, finalmente se ne va e lascia spazio a chi veramente sei.

Quando farai questa esperienza capirai che il più grande potere dell’uomo non è di “essere” bensì “non essere”. In questo stato, cioè diventando un vaso completamente vuoto, dai la possibilità alla magnificenza dell’Universo di riempirti e di svuotarti in ogni momento, così che il flusso sia sempre continuo, vitale, creativo.

Quando rimani in quel contenitore piena di te stessa, di quello che la tua mente ha creato, di quello che il mondo attorno ha creato e confezionato su misura per te, allora hai scelto la via del ristagno, della staticità priva di entusiasmo.

Impariamo a vedere i bambini come uno specchio. Loro ci insegnano tantissimo, perché possiedono un cuore magico, alimentato dall’immaginazione, dalla fantasia, dall’innocenza del giudizio, dalla naturalezza delle emozioni.

Noi abbiamo perso tutto ciò, siamo bravissime a controllare e spesso addirittura a soffocare le nostre pulsioni; abbiamo rimosso la fantasia e l’immaginazione per dare ascolto alla pura razionalità.

Puoi tornare ad essere quello che sei sempre stata e la forza che ti guida verso questa verità si chiama abbandono …..

Ben-essere e Counseling

$
0
0

benessere2.jpg

Con il termine benessere soggettivo si intende il giudizio che l’individuo dà sul valore della propria esistenza, con valenze sia cognitive che affettive.

Secondo alcuni ricercatori che hanno condotto studi sul benessere soggettivo, le componenti principali di tale costrutto sono:

  • Livello elevato di soddisfazione globale;
  • Livello elevato di soddisfazione in più ambiti definiti;
  • Livelli alti di emozioni positive;
  • Livelli bassi di emozioni negative.

Il fattore principale che interviene nella percezione di benessere soggettivo è l’adattamento, un processo importante perché con esso ed in esso si modificano le nostre aspettative e i nostri obiettivi.

Un secondo fattore che incide sulla percezione di benessere soggettivo è il temperamento. Diversi studi hanno rivelato che la felicità dipende tanto dagli eventi di vita quanto dal temperamento dell’individuo; si reagisce ad uno stesso stimolo con modalità differenti, in base alle caratteristiche della propria personalità.

Ultimo fattore che influenza il benessere soggettivo sono le variabili sociali, in particolare l’appartenenza ad una cultura individualistica versus una cultura collettivista. I soggetti appartenenti alla prima ricercano il benessere soggettivo sulla base dei loro sentimenti ed emozioni, mentre individui appartenenti alla seconda tendono ad avere come parametri di riferimento norme che stabiliscono cosa è soddisfacente e cosa non lo è. Ne consegue che si hanno maggiori livelli di soddisfazione nei soggetti di cultura individualistica, ma come risvolto si hanno anche tassi di suicidio e divorzio più elevati, in quanto in tali culture è consentita una più alta possibilità di cambiamento rispetto alle società collettiviste.

Negli anni 60 e 70 numerosi studi sulle illusioni positive hanno dimostrato che in tutti gli individui c’è una distorsione verso il positivo (tranne che nelle persone ansiose e in quelle depresse), e che tali distorsioni sono il segnale di un benessere mentale, determinando un totale spostamento in una prospettiva di salute mentale completamente cambiata, rivalutando e rimodellando così anche il concetto di saluto genesi.

La salute diviene, così la capacità di affrontare e risolvere problemi in modo flessibile e soddisfacente all’interno del contesto familiare e sociale.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha sviluppato il concetto di promozione della salute: il processo attraverso cui le persone migliorano la gestione e il controllo diretto delle proprie condizioni di benessere. Si passa così da un’ottica in cui l’eziologia era attribuita a caratteri ereditari, agenti patogeni e problemi relazionali nel corso della fase evolutiva, ad una prospettiva in cui per la malattia sono determinanti il comportamento e lo stile di vita dell’individuo.

Si pone l’accento, oltre che sull’assenza di malattia, sugli aspetti positivi della crisi, ritenute opportunità di cambiamento, piuttosto che elementi di danno.

Tale prospettiva si coniuga perfettamente con quanto sostenuto dagli psicologi umanisti come Maslow, Rogers e May, i quali, ribaltando le posizioni della psicoanalisi e del comportamentismo, mettono in evidenza le componenti sane della persona, la sua capacità di auto-organizzarsi, auto-regolarsi e di espandersi. Soprattutto Rogers ha sempre riposto un’estrema fiducia nella tendenza attualizzante dell’individuo; la capacità umana di raggiungere, fermo restando certe condizioni, la realizzazione delle proprie potenzialità.

E’ qui che si inserisce la relazione d’aiuto, in seguito conosciuta come Counseling, concepita principalmente come strumento di libertà, per ricreare intorno alla persona condizioni favorevoli alla sua crescita e consapevolezza, senza attenzioni morbose alle “patologie”. Il fulcro è l’aspetto positivo ed evolutivo dell’uomo, che tende alla soddisfazione dei propri bisogni e al controllo attivo delle proprie condizioni di vita.

Il Counseling diventa, quindi, il mezzo più idoneo alla promozione della salute, proponendosi come finalità principe la restituzione di un maggior senso di dignità, autonomia ed autostima alla persona permettendogli di vivere la propria vita, piuttosto di farsi vivere da essa.

Esso viene utilizzato allo scopo di affrontare e risolvere problemi specifici, superare crisi, agevolare lo sviluppo e l’evoluzione personale, prendere decisioni, ottimizzare i rapporti con gli altri e con se stessi, accrescere la consapevolezza, la conoscenza di sé ed elaborare conflitti ed emozioni.

Il cliente, attore principale nel processo di counseling, viene posto nelle condizioni di sperimentare, già nel corso del processo di aiuto, un adeguato ed autentico clima di responsabilizzazione, autodeterminazione e valorizzazione. L’agevolazione deve essere intesa come un allenamento all’autonomia, che la persona potrà conquistare attraverso la stessa relazione d’aiuto.

Si ha una relazione d’aiuto valida ed autentica , quando vi è un incontro tra due persone, di cui una si trovi in condizione di conflitto, sofferenza, confusione, stress, rispetto ad una determinata area della vita o ad un determinato problema, con un’altra persona che abbia un grado di adattamento, creatività, competenza, abilità e consapevolezza “superiori” alla persona in difficoltà, e che si riesca a stabilire un contatto che agevoli il cliente che ha bisogno di aiuto a compiere movimenti di chiarificazione, apprendimento e maturazione, che lo portino a scegliere e ad acquisire uno stile di vita più consapevole e responsabile, o comunque a rispondere in modo più soddisfacente al proprio ambiente e alle proprie esigenze, abilitando il cliente ad un agire efficace.

Il counselor professionale è un operatore della salute, che promuove il benessere psicofisico dell’individuo. Il suo preminente compito è quello di mobilitare o rimobilitare le energie sopite o latenti, riconoscendo le risorse utili della persona, per usarle come punti di forza per un suo migliore evolversi e divenire.

Il counseling è la grande novità di fine millennio nell’ambito delle scienze psicologiche e sociali. La prevenzione, l’aiuto psicologico e la promozione del benessere personale, vengono quindi favoriti dal counseling, il quale permette di creare punti di accoglienza per le persone che vogliono sviluppare le proprie attitudini e potenzialità e la propria identità.

 

Liberamente tratto da:

E.Giusti – E.Perfetti

Ricerche sulla felicità

Ed.Sovera

Pagg.50-55

 

 _______________________________________________________________________________

Se tutto questo ti ha incuriosito e vuoi provare CONTATTAMI e riceverai tutte le informazioni e/o fisseremo il primo incontro GRATUITO.

Non sei di Roma ???? Skype ti può venire in aiuto ….leggi qui …

 

Puoi contattarmi tramite:

mail: gabriellacosta@artcounseling.it

Tel.:  347 1751469      

Skype: gab.costa1

Chat Yahoo : artcounselor_g

 

 

 

.

 

Relazioni alla deriva …..

$
0
0

coppia muro.jpg

“ Ci vuole una grande abilità per capire

quando una cosa è finita …”

Polster


I rapporti finiti o in via di esaurimento sono quelli in cui nessuna delle due parti prospera, quotidianamente segnati da troppe comunicazioni disturbate, affievolite e senza interesse. Può ancora esserci dell’affetto genuino, ma nel rapporto è rimasta ormai troppo poca musica ….

Alcuni di questi rapporti sono anche affetti da una sterilità emotiva che nel corso del tempo può propagarsi su ogni cosa, soffocando qualsiasi possibilità di uno scambio significativo.

Quando è esaurita una relazione non va più da nessuna parte. Le due persone non nutrono più una curiosità di base l’una verso l’altra o un reale interesse per  quello che l’altra potrebbe stare pensando o provando. Non ci sono più conversazioni oneste e significative, ci si tiene dentro troppe cose. Tutti i pensieri e le emozioni più intime non vengono più condivise.

In qualche modo si manda avanti il rapporto ma la relazione ha perso la sua anima.

Ci sono poi rapporti in cui uno dei partner è contendo di vivere con un investimento emotivo blando e sicuro e l’altro invece desidera ardentemente ravvivare e vivere con passione. Quest’ultimo è profondamente consapevole di quello che manca nella  sua relazione e del fatto che nessuno dei due stia realmente crescendo in essa. Può capitare, quindi, che inizialmente una delle due persone tragga profitto dalla relazione , ma che in seguito il fatto di stare con l’altro soffochi la sua forza vitale.

In altri casi, la sensazione di andare alla deriva, di non andare da nessuna parte insieme, uccide gradualmente il rapporto. Alcune persone hanno il coraggio di parlare di questo, altre invece no permangono nella speranza illusoria che qualcosa possa cambiare da sola …

La soluzione???? Esplicitare il disagio, affrontare il problema esprimendo e riconoscendo la crescente sensazione di alienazione e la conseguente perdita di interesse verso l’altro.

Ma come si arriva a tutto questo???

Una relazione può guastarsi nel tempo dopo che troppi sforzi per stabilire un contatto sono falliti, troppi tentativi di avvicinarsi all’altro sono andati nel verso sbagliato, troppe espressioni di sofferenza sono rimaste inascoltate, troppe emozioni non comunicate.

Altri rapporti cominciano ad andare alla deriva perché entrambi i partner hanno tacitamente concordato di non esprimere mai disaccordo nei confronti dell’altro. Nel tentativo di mantenere buona la relazione non si sono mai concessi alcuna espressione di rabbia o risentimento.

Alcuni dicono, e sono quelli che mi fanno più paura, :” Abbiamo un rapporto fantastico. Non litighiamo mai”., e negano decisamente di aver mai avuto pensieri o impulsi distruttivi nei confronti del partner. Questo accade spesso perché si ha paura di questi impulsi, ritenendoli troppo pericolosi per poterli non solo esplicitare ma anche pensare. Il risultato è che nel giro di poco tempo l’intensità emotiva della relazione va scemando. Alla fine, la collera repressa può finire per rendere impossibili sia l’amore che il sesso.

Spesso, una relazione comincia a ristagnare, a spegnersi o si esaurisce del tutto a causa di un accumulo di sentimenti di rabbia e risentimento inespressi, che la privano della sua linfa vitale. In altre parole, al di sotto dell’apparente “piacevolezza” del apporto arde un focolaio di emozioni inespresse che lo prosciuga della sua energia.

Nell’Analisi Transazionale si parla di “raccolta punti” per indicare il modo in cui le persone accumulano tacitamente rancori nei confronti del partner. A livello superficiale si mostrano affabili nei loro riguardi, ma una volta raccolti punti a sufficienza passano alla cassa, chiedendo il divorzio, instaurando una relazione extraconiugale o uscendo dalla porta per non tornare più.

Quando due persone cercano di ingannare se stesse, aggrappandosi al pensiero che, a parte poche e trascurabili noie, entrambe nutrono solo un sentimento d’amore l’una verso l’altra, rivelano una incapacità di comprendere la condizione umana. La realtà, naturalmente, è che dove c’è amore forte, le inevitabili sofferenze che ci si ritroverà a vivere saranno altrettanto forti, semplicemente in virtù dell’enorme importanza che riveste per entrambe le parti l’altra persona. Se questo dolore non viene espresso e affrontato, può trasformarsi in un muro d’odio ….

 

Segue nel prossimo post …..

 




liberamente tratto da:

M.Sunderland

Disegnare le Emozioni

Ed.Erickson

 

L’ostinazione nel proseguire un relazione ormai esaurita ….

$
0
0

the end 1.jpg

Molto spesso i rapporti “alla deriva” continuano a causa del senso di conforto e di sicurezza che la familiarità offre unita alla paura di stare da soli. Ciò detto accade sovente che, quando la persona osa interrompere un rapporto ormai esaurito, si renda conto dell’infondatezza dei suoi timori provando, invece, un alleggerimento e un n uovo senso di vitalità ed energia.

Altri, invece, perseverano nella relazione sperando di poterla migliorare. Eppure, troppo spesso il torpore erode la forza vitale stessa del rapporto, facendo affievolire ogni speranza di cambiamento.

Altri ancora un giorno si accorgono all’improvviso che stanno vivendo e dormendo accanto a qualcuno che non amano più, e riescono a trovare dentro di sé, nell’esigenza di difendere la propria energia vitale, il coraggio di andarsene.

Il fatto di perseverare in relazioni ormai esaurite può essere il risultato di un rapporto genitore-figlio debole, impersonale o formale, segnato da una repressione dell’amore genitoriale. Questo tipo di inibizione comprende di solito uno o più dei seguenti aspetti:

  • Cultura familiare che privilegia le buone maniere e la forma
  • Repressione delle manifestazioni d’amore e mancanza di spontaneità al riguardo: il genitore non dice mai al bambino “ti voglio bene” o “sei un amore”, o lo fa molto di rado
  • L’amore è limitato a piccoli gesti affettuosi, come ad esempio l’offerta di cibo
  • Il bambino non si sente adeguatamente aiutato quando è angosciato
  • Il bambino sente che i genitori non condividono la sua gioia o addirittura viene criticato per essersi sovraeccitato

Il messaggio implicito che arriva al bambino è che, nel caso in cui dovesse provare grandi emozioni, come rabbia, angoscia o cocente delusione, i suoi genitori non sarebbero in grado di rispondere adeguatamente. Spesso per effetto di come sono stati trattati da bambini, questi genitori non sono in grado di affrontare le emozioni più intense dei figli, e pertanto si allontanano da loro (fuga) o li criticano (attacco). Come risultato, il bambino impara che le forti emozioni sono pericolose e minacciose e devono essere bloccate.

Non stupisce quindi che bambini educati in questo modo crescendo riescano ad instaurare solo rapporti emotivi superficiali. Da adulti potranno sposarsi, avere dei bambini, un buon lavoro, ma non riusciranno mai ad arricchire il loro rapporto con una intimità spontanea e/o condividendo con il partner le loro sensazioni più profonde riguardo a se stessi, la vita e il partner stesso.

Alcune persone, invece, maconfntengono rapporti ormai in via d’esaurimento in età adulta sempre per motivi che affondano nell’infanzia, ma di tenore ben diverso. Queste persone hanno assistito a troppi spaventosi sfoghi vulcanici di una figura genitoriale. Da questo hanno anch’esse imparato che le emozioni forti sono pericolose. Pertanto, le reprimono in se stessi privilegiando rapporti caratterizzati da un blando investimento emotivo perché vi si sentono più al sicuro. Tuttavia, come abbiamo visto nel post precedente, ironicamente è proprio questa “sicurezza” a privare una relazione della sua forza vitale.

Un altro esempio di relazione che può trascinarsi per forza d’inerzia è la relazione simbiotica dove entrambi i partner hanno una tale fobia del conflitto da “concordare” di avere gli stessi punti di vista sulla vita, le stesse sensazioni sulle persone che li circondano, le stesse opinioni su politica, società, cultura. Ciò significa poter tener ben lontana dalla loro relazione quella cosa pericolosa che risponde al nome di “conflitto”.

In una relazione simbiotica i due partner si fondono sotto molti aspetti in una persona sola. Possono persino cominciare a dire cose come “noi pensiamo”, “noi sentiamo” etc … Alcune coppie simbiotiche hanno anche, letteralmente o metaforicamente, un qualche “rifugio” cui possono accedere solo loro, sbarrando la porta ad ogni altra avventura o esplorazione.

Alcune relazioni simbiotiche sopravvivono a lungo perché entrambi i partner amano trascorrere un sacco di tempo a lagnarsi degli altri, trasferendo in tal modo sugli altri tutte le sensazioni di rabbia, rancore e amarezza che provano l’uno nei riguardi dell’altro, collusi a giocare a “tu e io contro il mondo”.

Nel caso in cui , però, uno dei due dovesse mai  rompere il tacito accordo di non concordare su tutto, e osasse comportarsi in modo diverso o esprimere un’opinione diversa, potrebbe suscitare l’indignazione della’altro. Quest’ultimo potrebbe prorompere in un “Come osi dire/pensare questo? Hai infranto il nostro patto!”. Sarebbe come far esplodere una bomba nel rapporto. La ricaduta potrebbe essere tanto esplosiva e violenta da distruggere la relazione stessa.

Concludendo, spesso è difficile valutare la qualità di una relazione importante. Di conseguenza, è arduo decidere se convenga mantenerla e lavorarci su o chiuderla e passare oltre. Da una parte c’è il rischio di allontanarsi da un rapporto fondamentalmente arricchente perché non corrisponde ad una immagine fiabesca e idealizzata di come dovrebbe essere una relazione intima. Dall’altro, quello di perseverare in un rapporto sempre più povero di emozioni soltanto perché sicuro e confortevole.

Ricordiamoci, tuttavia, che per VIVERE PIENAMENTE è necessario osare e il coraggio di lasciare andare quello che ci accorgiamo essere diventato una zavorra è la condizione necessaria per poter godere del cammino ……

 

“Aprendo la porta di servizio, Colin rabbrividì alla ventata

di aria fresca proveniente dal mondo esterno …” Cook


Litania della Vittima ….

$
0
0

 vittima,paura,immobilismo,cambiamento

Puoi smettere di fare la vittima in qualunque momento. Dipende solo da te. Dunque datti una mossa . E tanto per cominciare leggi questo post ….. (dalla quarta di copertina di “come smettere di fare la vittima e non diventare carnefice” di Giulio Cesare Giacobbe).

 

Non è giusto, ogni volta è la stessa cosa!

Non possono farlo!

E’ sempre così, non cambierà mai, è sicuro!

E comunque non è colpa mia, ce l’ho messa tutta!

E’ così!

E’ stata colpa di mamma, di papà, di mio marito o dei miei figli … ora è colpa degli altri … presto sarà colpa del governo, dell’inquinamento, del buco dell’ozono!

Sono la vittima assoluta, generale, ed ho paura, ho paura!

Oh sì, ho paura:

  • paura di stare da sola, paura di essere respinta dagli altri;
  • paura di amare, paura di non essere amata;
  • paura di amare troppo, paura di non amare abbastanza;
  • paura di parlare, paura di tacere;
  • paura di agire, paura di non fare nulla;
  • paura di dire di sì, paura di dire di no;
  • paura di avanzare, paura di indietreggiare, paura di restare ferma;
  • paura di ballare, cantare, ridere;
  • paura di piangere, paura di arrabbiarmi;
  • paura di prendere il mio spazio, paura di non prenderlo;
  • paura che l’altro si prenda il suo spazio, paura che l’altro non lo prenda;
  • paura di morire, paura di vivere ….

Ma nascondo bene la mia paura: mi fa troppa paura!

In fondo, credo di aver soprattutto paura di avere paura.

Per provare ad evitarla proverò a meditare, a ritirarmi, a diventare zen ….

Oppure posso contrattare, posso impuntarmi sulle parole, per non guardare in faccia la mia paura. Sono una maestra con le parole, le uso come fossero sentimenti, così mi permettono di dare agli altri la colpa di quello che vivo: “Mi sento manipolata, abbandonata, sfruttata, tradita, rifiutata, esclusa, attaccata, ignorata, disprezzata…”

Così aspetto che gli altri cambino per fare andare meglio e cose.

Quando gli altri, tutto gli altri, saranno cambiati, finalmente le cose andranno meglio.

Sì, ho paura della mia paura e se ci entro dentro rischio di uscirne. E se esco, perdo in un colpo solo, la mia comoda sofferenza e il mio ruolo preferito: il mio potere di monopolizzare l’attenzione di tutti, il mio potere di far girare tutto intorno a me, tutto questo è stato fino ad ora il modo di ritagliarmi il  mio spazio.

E’ questo che mi blocca: ho paura di non aver paura perché fino ad ora questo mi ha fornito una identità e un modo di essere!!!! …..

Uomini e donne collimano ?? …

$
0
0

uomo donna.jpg


Numerosi popolari manuali, secondo cui gli uomini vengono da Marte e sanno parcheggiare, mentre le donne vengono da Venere e quindi appunto non so  sanno fare, hanno contribuito a dare vita ad una discussione decisamente più profonda e complessa dei libri da cui ha preso spunto.

Ai tempi delle nostre nonne le regole del gioco erano fisse. Gli uomini assumevano il loro ruolo e le donne pure. Perlomeno all’esterno queste direttive sociali venivano rispettate e seguite in maniera abbastanza coerente.

Dagli anni Sessanta la situazione è cambiata in modo radicale. Se in passato i costumi sociali e la m orale trasmessa dalla Chiesa valevano come istanze su cui improntare la convivenza relazionale, oggi questi sono stati progressivamente sostituiti da ideali che vedono ai primi posti della propria scala di valori concetti come libertà, autorealizzazione e indipendenza.

Accanto a questi cambiamenti sociali generali vanno tenute presenti le rivoluzioni specificatamente sessuali, secondo cui gli uomini non sono più i soli che vanno a “caccia” e le donne non sono più le uniche “addette al focolare domestico”.

Le società moderne prevedono individui autonomi e indipendenti, capaci di badare a se stessi e mantenersi da soli. I cambiamenti esterni perché siano considerati in modo evolutivo è necessario che portino con sé anche cambiamenti interni. Il rapporto intrinseco a matrimoni e relazioni sentimentali oggi non sole è ampiamente improntato alla parità dei diritti, ma ha anche acquisito una nuova dimensione profonda.

Nelle relazioni fra individui che vivono la propria vita in piena consapevolezza, la convivenza viene sempre più esperita come un movimento di “anime” e un “viaggio a due”. Si vive insieme per scambiarsi esperienze, cercare un contatto, incontrarsi e costruire qualcosa l’uno con il contributo dell’altro.

La formula che identifica queste dinamiche può essere riassunta con: “più consapevole è una relazione, maggiori saranno al suo interno rispetto, amore e libertà reciproca”. Il partner non viene più inteso come una proprietà o un possesso, bensì piuttosto come “specchio della propria anima”.

In passato era usuale la combinazione di un partner debole con uno forte per compensare debolezze e punti di forza. Oggi, dal momento che debolezze e punti di forza non vengono soffocati a lungo, ma in molti rapporti di coppia discussi apertamente, si tratta di crescere insieme a colui che ci sta di fronte e di mettere finalmente mano ai “compiti a casa” rimasti irrisolti. Per questo c’è bisogno di un luogo protetto che ogni relazione dovrebbe procurarsi, perché stirando, seguendo i figli per i compiti o stando davanti alla televisione non ci sarà l’opportunità di parlare di argomenti che scavino in profondità. Qui si richiede il silenzio, attenzione premurosa, intimità e sensibilità: perché questi sono i momenti che costruiscono davvero il valore e la sostanza di una relazione.

Siccome il classico comportamento di ruolo è radicalmente mutato, uomini chiedono un congedo per paternità mentre giovani mamme riprendono ad esercitare la propria professione, i valori di una relazione sono stati trasferiti dalla sfera esteriore a quella interiore. Oggi, in molti legami, si tratta di vedere nell’altro un “individuo spiritualmente affine”, piuttosto che percepirlo nel classico ruolo uomo-donna. In questo contesto risulta evidente che sul piano psichico la differenza tra uomini e donne si riduce. E’ vero che nell’uomo continua a dominare la parte mentale, attiva e razionale, mentre nella donna è la parte emozionale, ricettiva a essere in primo piano, ma anche questi due mondi si stanno sempre più avvicinando. Le donne acquisiscono chiarezza mentale e gli uomini danno spazio a sentimenti e intuizioni.

Quindi gli uomini permettono alla loro “parte femminile” di estrinsecarsi, mentre le donne imparano ad avvantaggiarsi dei loro “aspetti maschili”. Più lucido e consapevole è questo processo, più facile sarà per i partner coinvolti in una relazione incontrarsi da individuo a individuo e non in primo luogo da uomo a donna.

Per non essere fraintesa: non si tratta di rendere interscambiabili uomini e donne. Le donne rivelano e riveleranno sempre la parte femminile della creazione e gli uomini quella maschile. Per la donna moderna si tratta di scoprire il suo nucleo essenziale più intimo, che non è più prevalentemente specifico di un sesso. Lo stesso vale naturalmente anche per gli uomini.

Se si compie questo passo verso la propria interiorità, l’incontro tra uomini e donne si realizza in una dimensione profonda e completamente diversa. Come ovvio una donna rimane comunque una donna e uo uomo un uomo. Ma nel contesto di questa nuova consapevolezza …. collimano!!!

La maschera .....

$
0
0

donna maschera 1.jpg

 

I miti aborigeni sulla creazione della terra narrano di un Tempo del Sogno, durante il quale leggendarie creature percorsero in lungo e in largo il continente, cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano: uccelli, animali, piante, rocce, “ e con il loro canto avevano fatto esistere il mondo” (B.Chatwin – Le vie dei canti - )

Un’antica leggenda animata da creature fantastiche, ma che in realtà descrive quello stesso potere creativo che i bambini custodiscono da sempre come dote innata.

Semplicemente giocando, un bambino sa vedere in una pozzanghera un meraviglioso oceano e fare di una foglia un veliero. Sostenuto dalle sue emozioni può cogliere la vita in una pietra e trasformarla in una delle tante creature che la fantasia sa suggerirgli. Un potere creativo che ogni bambino sa esprimere, grazie alla capacità innata di emozionarsi ed emozionare, senza giudicare i sentimenti che prova, che siano rabbia, gioia o dolore.

Ma proprio da piccoli spesso siamo costretti a camuffare la nostra energia, imparando a mascherare tutte quelle emozioni non tollerate e considerate pericolose dal senso comune della morale. Man mano capita di chiuderci in una “non vita”, dove attraverso giochi raffinatissimi di simulazione ci esercitiamo a esprimere tutto quello che è utile per essere ben allineati e approvati, alienando i messaggi del nostro cuore.

Così iniziamo ad indossare le nostre prime maschere. Ma non c’è colpa in questo gesto. Siamo troppo piccoli e impauriti e vogliamo solo difenderci, sopravvivere, o più spesso preservare l’amore dei nostri genitori, mostrando loro un bambino tanto perfetto quanto irreale che per sopravvivere “deve” adattarsi alle richieste genitoriali.

Purtroppo contemporaneamente, come effetto collaterale, finiamo per sacrificare le nostre emozioni trasformandole e privandole dell’integrità originaria.

La paura del rifiuto ci spinge a negare le nostre debolezze, mascherando il nostro animo con un’ostentata sicurezza. In realtà temiamo l’amore e ogni sua espressione, come un dittatore che ha paura che il suo regime verrebbe sovvertito se la libertà dovesse prevalere. Così non permettiamo alle nostre emozioni di pronunciarsi liberamente, esiliandole nell’angolo più nascosto del nostro animo.

Spesso trasformiamo invece il senso di autostima che da piccoli nobilita e sostiene il nostro amore, tramutandolo in orgoglio. Ci mascheriamo così di presunzione e giudichiamo come sbagliato tutto quello che sfugge al nostro controllo. Una maschera pericolosa che spesso nasconde un profondo senso di vergogna interiore. Quella vergogna nata sin da piccoli, quando fummo educati a percepire come inappropriata ogni espressione spontanea d’amore, quasi come se bisognasse avere una giustificazione per esprimere le proprie emozioni.

Ma se la paura del rifiuto e l’orgoglio possono spingerci sin da piccoli a indossare le nostre prime maschere esiste un terzo cospiratore che alimenta le nostre simulazioni: la volontà distorta. Da piccoli abbiamo imparato a mascherarci per difenderci dal giudizio e dalle coercizioni, perché in gioco c’era la nostra sopravvivenza. Da adulti però siamo solo noi che scegliamo di mantenere ancora imprigionate le nostre emozioni e di credere alle menzogne apprese sin da piccoli.

Non siamo più vittime di nessuno e se ci ostiniamo a vivere ancora dietro una maschera, la responsabilità è solo nostra. Della nostra volontà distorta che ci induce ancora a dare credito a delle percezioni infondate, come l’idea di dover essere perfetti e privi di fragilità per essere amati.

“Uno è più autentico quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stesso” (Almodovar – Tutto su mia madre)

Forse proprio in questa frase sta il segreto per rompere la maschera di quei codici sociali tanto reali quanto artefatti, smettere di ossessionarci che la nostra vita sia necessariamente compresa e approvata da tutti coloro che ci circondano, dando nuovamente voce al potere creativo delle nostre emozioni.

Una voce capace di evocare non più una realtà rigida, relegata nella paura del comune consenso, ma che sa modificarsi e assumere le forme e i colori migliori che la vita sa suscitare.

Ritornare a vivere emozionati, senza sentirci in colpa per questo, perché se, per timore della vita, viviamo senza emozioni, significa che la nostra vita è già finita.

La strada per liberarci dalle nostre maschere è senza dubbio lunga e difficile. Potremmo però affrontarla con la fiducia che la nostra bellezza interiore non smetterà mai nenache per un attimo di esprimersi per rendersi libera.

E’ necessario “sfondare il muro del dolore” per liberarci dalle tante falsità che ci siamo e abbiamo raccontato, quel dolore risanatore che guarisce tante anime in pena …..

Sull'Intuizione ...

$
0
0

intuito e ragione.jpg

Cominciamo con la definizione di “intuizione”:

  • Il potere o la facoltà di conseguire conoscenze o cognizioni in modo diretto, senza evidente ricorso a riflessione razionale o processi inferenziali.
  • Comprensione rapida e profonda.
  • Dal latino “intuitio” e da “in” e “tueri” – contemplare, guardare con attenzione da cui “atto di guardare con attenzione dentro di sé o una forma superiore di attenzione tramite lo sguardo interiore.

Esiste una forza vitale universale e intelligente in ogni cosa e in ogni persona. Risiede in ciascuno di noi, nella forma di una profonda saggezza, una conoscenza interiore. Abbiamo accesso a questa meravigliosa forma di conoscenza e di saggezza attraverso l’intuizione, un senso interno che ci dice cosa ci appare giusto e vero in ogni momento.

Molte persone non abituate a fare uso cosciente dell’intuizione immaginano che sia una forza misteriosa che dovrebbe arrivare loro attraverso una qualche esperienza mistica trascendentale. In realtà, la nostra intuizione è uno strumento molto pratico e concreto sempre disponibile per aiutarci a prendere decisioni difficili, affrontare problemi e sfide nella vita quotidiana.

L’intuizione è una cosa naturale che abbiamo fin dalla nascita. I bambini piccoli sono molto intuitivi, ma nella nostra cultura li si educa subito a non esserlo.

Di fatto, siamo tutti potenzialmente intuitivi: alcuni sviluppano questa abilità in modo consapevole, mentre la maggior parte delle persone impara a trascurarla o rinnegarla. Per fortuna basta un po’ di pratica per riabilitare e sviluppare le nostre capacità intuitive. Possiamo imparare ad entrare in contatto con la nostra intuizione, a seguirla e a farla diventare una guida efficiente nella nostra vita.

In molte culture l’intuizione è riconosciuta e rispettata come una dimensione naturale e assai importante della vita. Queste società creano potenti rituali, come riunioni pubbliche, condivisioni dei propri sogni, canti balli e interrogazioni di oracoli, tutte cose che favoriscono la connessione con il regno interiore dell’intuizione. Gli appartenenti a quelle culture imparano a fidarsi e a seguire il loro senso interno del vero; essi hanno un sentimento profondo delle interconnessioni che strutturano la vita.

La nostra moderna cultura occidentale, invece, non riconosce alcuna validità all’intuizione, negando perfino che esista. Il nostro sistema scolastico riflette e rinforza questa tendenza. Si concentra quasi esclusivamente sullo sviluppo della parte sinistra del cervello, corrispondente alle capacità razionali e perlopiù ignora lo sviluppo dell’emisfero destro, che presiede alle capacità intuitive e creative.

La mente razionale è come un computer: elabora degli imput che riceve dall’esterno e sulla base di queste informazioni trae delle conclusioni logiche. Per questo motivo, ha dei limiti ben precisi, potendo applicarsi soltanto a quei dati che riceve dal nostro mondo esterno.

La mente intuitiva, invece, sembra avere accesso ad una riserva infinita di informazioni, fra cui alcune che non abbiamo raccolto per esperienza personale. Sembra dunque capace d’immergersi in un profondo deposito di conoscenza e di saggezza. E’ anche capace di classificare queste informazioni, di fornirci esattamente ciò che ci occorre e di farlo al momento giusto.

Anche se il messaggio può arrivarci un pezzettino per volta, se impariamo a seguire questo flusso di informazioni un passo dopo l’altro, scopriremo come ci conviene agire. Nel momento in cui impariamo a fare affidamento su questa guida, la vita assume un carattere sicuramente più fluido.

Quando dico che è necessario che l’intuizione diventi la nostra forza trainante, non intendo sminuire né tantomeno eliminare l’intelletto. La nostra facoltà razionale è uno strumento molto potente che può aiutarci ad organizzare, comprendere e imparare dall’esperienza.

Tuttavia, se cerchiamo di dirigere la nostra vita a partire dalla sola ragione, corriamo il rischio di tralasciare molte cose.

Molti di noi hanno addestrato il loro intelletto a mettere in dubbio le intuizioni. Quando sorge una intuizione, la mente razionale immediatamente dice: “Non penso che possa funzionare”, oppure: “Che idea folle!”, così l’intuizione viene messa da parte. E’ bene addestrare il nostro intelletto a rispettare, ascoltare ed esprimere la nostra voce intuitiva.

Molte persone usano la parola “istinto come sinonimo di “intuizione”. In realtà, istinto e intuizione sono cose diverse, anche se collegate.

Gli animali vivono grazie all’istinto, una dote geneticamente programmata che li guida nello sforzo di sopravvivere e riprodursi. Noi esseri umani siamo animali e possediamo anche noi capacità istintive che ci spingono all’autoconservazione e alla preservazione della specie.

Ma. Oltre all’istinto, noi umani abbiamo l’intuizione, che ci fornisce una quantità vastissima di informazioni relative non soltanto alla nostra  sopravvivenza, ma anche alla nostra crescita, al nostro sviluppo, all’espressione del carattere e altro …

Di solito il comportamento istintuale è simile in tutti i membri di una specie, mentre l’intuizione sembra più sintonizzata coi nostri bisogni individuali in ogni circostanza.

Divenendo sempre più “civilizzati”, noi esseri umani abbiamo continuato a reprimere o ripudiare le forze istintuali, come l’aggressività e la sessualità. Entro una certa misura questo è necessario per avere una società ordinata e rispettosa delle leggi. Tuttavia, se reprimiamo eccessivamente i nostri istinti, perdiamo molta della nostra energia vitale, nonché la capacità di prenderci cura di noi stessi.

Quando ripudiamo le forze istintuali, spesso perdiamo anche il contatto con la nostra intuizione. Perciò dobbiamo cercare di sviluppare un più sano equilibiro tra intelletto, istinto e intuizione.

Uno dei punti decisivi per entrare in contatto con l’intuizione è imparare a rilassare la mente e il corpo quanto basta per permettere alla nostra attenzione di “uscire dalla testa” e immergersi in un luogo profondo dentro di noi dove risiede l’antica saggezza.

Limitarsi a lasciare che la consapevolezza si diriga verso un luogo profondo del corpo può essere di grande aiuto per aprire le porte all’intuizione.

Se si prova qualche fatica a rilassarsi, ecco qualche suggerimento:

  • Fare qualcosa di piacevole che richieda un esercizio fisico – camminare, correre o mettere su della musica e ballare – finchè non ci si sente stanchi. A quel punto stendersi e rilassarsi profondamente.
  • Mettere della musica rilassante che piace particolarmente mentre ci si stende e si lascia che la musica entri dentro.
  • Ascoltare una cassetta audio di meditazione guidata
  • Fare un corso di yoga o meditazione che alleni alla capacità di rilassarsi.

La cosa fondamentale è essere gentili con noi stessi. Evitiamo di  insistere troppo, ricordandoci che ci si sta preparando a prestare ascolto a qualcosa che in fondo sappiamo già ….

 

“La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un servitore fedele. Noi abbiamo creato una società che onora il servitore e ha dimenticato il dono…”  A.Eistein

 

Sul senso del vivere .....

$
0
0

tante strade 1.jpg

Lilli Carmellini - Tante Strade   http://www.lillicarmellini.it/Tante-strade.html


“Ritengo che la Verità sia una terra senza sentieri e che non si possa raggiungere attraverso nessuna via, nessuna religione, nessuna scuola. Questo è il mio punto di vista, e vi aderisco totalmente e incondizionatamente. Poiché la Verità è illimitata, incondizionata, irraggiungibile attraverso qualunque via, non può venire organizzata, e nessuna organizzazione può essere creata per condurre o costringere gli altri lungo un particolare sentiero….” Krishnamurti

 

Vari e articolati studi sulla società riguardanti i “nuovi valori” concordano tutti nel dire che ad occupare il primo posto nella gerarchia dei valori non sono né la famiglia, né i figli, né il successo, il denaro o la salute, bensì il SENSO.

Per la maggior parte degli individui la questione più importante a cui dare una risposta è quella del senso della propria vita.. Dove trovare quindi la soluzione a questo interrogativo???

Il saggio Krishnamurti dice: “la verità è una terra senza sentieri”. Se si leggono queste parole con attenzione, all’inizio si rimane un po’ confusi, perché in realtà, cercando la verità, ci farebbe piacere sapere quale strada dovremmo imboccare. Ma è proprio questa scelta ad apparire sbagliata al filosofo, che era invece convinto che ogni uomo dovesse trovare una sua “propria strada verso la verità”.

E’ vero che per ogni uomo valgono le leggi della matematica o della gravità, quindi per così dire la “verità oggettiva”, ma accanto a questa, e non meno importante, c’è anche la “verità soggettiva”, la verità del proprio cammino di vita.

Questo non è affatto prestabilito, ma si snoda davanti ai nostri occhi nel momento in cui lo si percorre.

La risposta alla domanda sul senso della vita non si trova quindi in dogmi imposti, dottrine salvifiche o prescrizioni, ma nel proprio cuore.

Altre “verità soggettive” possono essere meravigliose ispirazioni per il proprio cammino, tuttavia questo non sarà mai sovrapponibile agli altri progetti ed esperienze di vita. La propria vita rimane un’avventura!!!

E per poter iniziare il “grande viaggio” è necessario armarci di una buona dose di coraggio per far piazza pulita del vecchio e metterci in una condizione di ascolto interiore per cogliere quelle ispirazioni (vedi il post precedente sull’Intuizione) che possono illuminarci il cammino.

L’individuazione di un senso conferisce alla vita stabilità e radici robuste a cui ancorarsi, che donano allo stesso tempo forza e chiarezza. Chi desidera realizzare con successo la ricerca di un senso, si renderà presto conto che quest’ultima non prevede un termine. Essa ha luogo “qui e ora”, senza, tuttavia, che si giunga ad un termine. La Vita prosegue il suo cammino in eterno. C’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire.

Il modo migliore per iniziare la ricerca di un senso è porsi questa domanda: “Che cosa voglio?”

Se ci porremo questa domanda in maniera sincera e profonda non si tratterà di piccole questioni materiali esteriori, ma vi riconosceremo una prospettiva. Vedremo scintillare nuovi orizzonti, anche se questi sembreranno essere lontani ancora anni luce. Rivolgiamo lo sguardo a questi orizzonti lontani trovando la connessione con il nostro cuore……

Un autore sconosciuto ha espresso questo con parole che trovo particolarmente ispirate


“ La vita non dovrebbe essere un viaggio organizzato verso la tomba,

che raggiungiamo sicuri e senza contrattempi in un corpo attraente e ben conservato.

E’ piuttosto un percorso per vie traverse,

con un bicchiere di champagne in una mano,

una manciate di fragole nell’altra,

il corpo scrupolosamente consunto dall’uso,

il cuore aperto,

lo spirito libero da vincoli,

l’anima pronta a librarsi in alto,

gridando esausti: … “Wow, che viaggio !!!!!

Viewing all 144 articles
Browse latest View live