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Counseling o Psicoterapia “pit stop” per ritrovare la gioia di vivere ….

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Vivere la vita cento per cento. Spesso si vive a metà perché o non si oltrepassano i limiti minimi oppure perché si vuole vivere mentalmente nell’infanzia. E’ come vivere addormentati. Il lungo sonno inizia nell’infanzia, prosegue a tinte forti nell’adolescenza e prosegue in alcuni casi per tutta la vita. Si diventa così esseri incompleti: per metà adulti e per metà bambini. Fino a che questa ambiguità diventa insopportabile.

E’ la crisi esistenziale per eccellenza, quella che di solito viene fuori fra i trenta e i quarant’anni, dal cui esito si definisce il destino della propria vita.

Che fare???? O si va avanti nel segno della confusione o si decide i fermarsi per ritrovare la propria unità. In questo senso un percorso di counseling o, in alcuni casi, una psicoterapia possono considerarsi strumenti per risvegliarsi e riprendere in mano il controllo della propria esistenza.

Una via di cambiamento, decidere di accorgersi di se stessi : una scoperta formidabile!

Ma al di là di qualsiasi percorso si voglia intraprendere tutti dovrebbero accorgersi ad un certo punto come esista un modo qualsiasi per partecipare di più alla propria vita, non sottovalutarla mai, prenderla in considerazione una volta per tutte, non bruciarla rapidamente come se fosse un bene di consumo.

La vita va assaporata lentamente. Se ci si accorge che si corre troppo, occorre fermarsi per andare a recuperare quello che si credeva perso.

Cambiare è accettarsi per come si è, accorciare la distanza fra sé e sé e accorgersi di essere diventati adulti. In quanto adulti, poi, abbiamo la necessità di prendere atto con serenità e obiettività di questi cambiamenti. Pesare bene i cambiamenti concreti, imparare a metterli sulla bilancia e misurarli oggettivamente.

Bisogna poi avvicinarsi al counseling o alla psicoterapia senza l’illusione infantile che tutto possa essere risolto con un colpo di bacchetta magica altrimenti arriva matematica la delusione, bisogna avvicinarsi con realismo e spirito di avventura. Il viaggio alla scoperta di noi stessi e un cammino affascinante che richiede tuttavia impegno e coraggio, la “guarigione” non è un punto d’arrivo ma uno stato.

Si “guarisce” tante volte, il percorso per ri-trovare se stessi è costellato da combattimenti contro un drago dalle tante teste; ogni volta si abbatte una testa e si va avanti con la prossima. Jung parla di percorso a spirale: la sensazione è di essere sempre nello stesso cerchio, ogni volta che torniamo sul problema originario, attraverso le cadute o il regredire, tipico di ogni percorso di crescita. In realtà invece ci troviamo su  di una spirale e ogni volta siamo un po’ più su, ogni volta ci ritroviamo ad un livello più alto anche se crediamo di essere tornati indietro.

Quindi le cadute che sperimentiamo nel nostro cammino di consapevolezza sono occasioni importanti per acquisire una nuova energia. Meglio ancora, le cadute sono necessarie per evolverci!

Personalmente considero la nostra evoluzione come un percorso a tappe. Ogni volta, tappa dopo tappa, bisogna riconoscere a noi stessi i cambiamenti che sono tanti, veramente tanti.

Tuttavia è necessario anche sapere che per il bambino che vive dentro di noi i cambiamenti non sono mai abbastanza perché il bambino vuole il paradiso, non c’è misura che lo soddisfi. Come tutti i bambini se gli dai 100 vuole 110. Esagera, semplicemente esagera. Così quando diventiamo adulti cresciuti possiamo percepire la portata di queste esagerazioni e sentirle presenti nell’anima.

Solo lavorando sul dolore, sul vero dolore sottostante il vittimismo, il bisogno di lamentarsi sempre, potremo capire che in fondo volevamo molto di più, molto di più di quanto i nostri genitori ci potevano dare.

Molti problemi e conflitti hanno la loro radice nelle “esagerazioni”. L’equilibrio e l’armonia vengono fuori dalla fine della dipendenza dalle esagerazioni puerili. Superare un problema significa renderlo inattuale, lasciarlo indietro. Essere finalmente consapevoli di vivere nel presente adulto. Comprendere che oggi c’è una via d’uscita che non potevamo vedere un tempo.

Il lavoro con noi stessi non è una corsa sfrenata verso un punto d’arrivo per poi avere quella liberazione catartica che sogniamo da quando eravamo piccoli; bensì un lavoro paziente che va oltre l’obiettivo, un po’ come superare i problemi significa renderli inattuali più che risolverli.

Per me non esiste la persona “risolta” ma la persona che fa del lavoro onesto con se stessa per ripristinare la fiducia in quella che è fondamentalmente al fine di ri-trovare la gioia di vivere. Un lavoro di pulizia e di superamento di tutti gli ostacoli veri o presunti che abbiamo messo davanti alla nostra anima per non soffrire più e di conseguenza per imparare a rivederla nel suo splendore e nella sua ricchezza.

Io credo tantissimo nell’aspetto evolutivo della vita. Se ho vissuto di slancio e forse anche un po’ di corsa i primi 40 anni della mia vita, devo dire che gli ultimi 12 sono trascorsi nel segno di una grande evoluzione. Questo mi fa pensare che se abbiamo il coraggio di fermarci per “mettere le mani” nel nostro motore interno possiamo fare progressi indescrivibili ad ogni età, sfruttando funzionalmente ogni “caduta”, ogni “crisi” che la vita inevitabilmente ci propone …..

 


Il complesso di Peter Pan (I parte)

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Varie mail mi hanno sollecitato a scrivere questo post per illustrare quella che è una delle sindromi “molto gettonate” ai nostri giorni: “il complesso di Peter Pan”, il “puer aeternus” che non vuole crescere, che è rimasto fermo alla propria infanzia dove tutto è bello, tutto è possibile. Incapace di fare i conti con la realtà, rifiuta di calarsi nel mondo, con le limitazioni che questo comporta. Pur non costituendo   una malattia mentale la sindrome di Peter Pan è un modo di funzionamento della psiche che, per quanto si possa vivere "bene", rischia di condurre alla depressione o di creare seri problemi di relazione con gli altri.

Il nome deriva dal titolo del libro scritto da James Matthew Barrie “Peter Pan, o il ragazzo che non voleva crescere” in cui il protagonista è un ragazzo invincibile dotato di poteri magici che porta i bambini Wendy, John e Michael nel “Paese Che Non C’E’”, paese a cui gli adulti non possono accedere.

Le vicende che si susseguono sono un alternarsi di sogno e di incubo: i bambini devono far fronte a situazioni diverse, dalla lotta coi pirati al superamento di varie prove, ma nonostante feroci battaglie non viene mai sparso del sangue, il bene trionfa sul male e ogni vicenda ha un lieto fine.

Il Paese Che Non C’E’ è un mondo lontano dalla realtà, dove i piccoli non sono tenuti ad obbedire ai genitori, e che per Peter Pan costituisce l’unica realtà esistente. Peter Pan, negando che la vita vera sia una grande avventura, non riconosce niente altro al di fuori del suo regno e questo è il motivo per cui, alla fine, respinge l’offerta della madre di Wendy di andare a vivere nella loro famiglia.

A seconda dell’infanzia che abbiamo avuto ci siamo formati un’idea di quello che vuol dire essere adulti. Se siamo cresciuti in un ambiente in cui i grandi erano persone sensibili che si godevano la vita e che sembravano padroneggiare gli eventi, diventare adulti era per noi una cosa da attendere con impazienza.

Se, invece, i grandi ci apparivano depressi e senza più entusiasmo, o sempre di cattivo umore, la prospettiva della maturità ci doveva apparire abbastanza scoraggiante.

Il fatto che i bambini abbiano una conoscenza limitata delle possibilità offerte dalla vita restringe la loro visione del mondo, rendendoli così incapaci di scorgere le opportunità esistenti da cui trarre il meglio, almeno finchè la loro visione rimarrà circoscritta. Essi vivono in un mondo piccolo dove l’ignoto e l’inspiegabile sono spaventosi ed evocano poteri mistici al di là del loro controllo. Solo quando affrontano e superano nuove situazioni e difficoltà, i bambini imparano a trarre dall’esperienza conoscenze aggiuntive utili ad allargare gli orizzonti del loro mondo.

Se però una persona viene esposta ad un eccesso di situazioni traumatiche, è possibile osservare il movimento opposto, cioè il distacco graduale dal mondo esterno con la delimitazione dei confini da non superare.

Invece di vivere le trasformazioni psicologiche naturali dell'adolescenza, le persone affette dalla sindrome di Peter Pan passano direttamente dall'infanzia all'età adulta senza passare per la fase adolescenziale. In altri termini, la persona colpita cresce normalmente, la sua intelligenza si sviluppa, ma il suo cuore resta bloccato nell’infanzia, come Peter Pan che vive immerso in un mondo meraviglioso, lontano dai problemi dei grandi...

Quali sono i principali sintomi??

Anche se gli adulti sono giunti all’età dei trent’anni o addirittura sono vicini ai quaranta, continuano a comportarsi come bambini. Normalmente queste persone sembrano essere sicure di se stesse ed addirittura mostrano una certa arroganza; ad ogni modo, questa è solo una corazza per nascondere le loro insicurezze e l’incapacità decisionale. Queste persone si nascondono dietro le scuse e le menzogne con l’obiettivo di nascondere la loro incapacità di crescere; parlano normalmente di progetti fantastici, affari incredibili, grandi avventure amorose...Queste fantasie (nella maggior parte dei casi impossibili da realizzarsi) permettono loro di sfuggire alle loro responsabilità e poter così dare la colpa agli altri delle cose negative che accadono loro.

  • Si sentono profondamente sedotti dalla giovinezza, fase che mantengono idealizzata tentando di negare la propria maturità.
  • Paura della solitudine.
  • Profonda insicurezza e bassa autostima.
  •  Il loro atteggiamento si concentra nel ricevere, chiedere e criticare ma non si preoccupano di dare o fare. Questo fa sì che vivano concentrati in se stessi e nelle loro problematiche senza preoccuparsi troppo per ciò che succede alle persone intorno a loro.
  • Considerano che il compromesso sia un ostacolo alla loro libertà.
  • Non si prendono la responsabilità delle proprie azioni mentre gli altri devono farlo per loro.
  • Si sentono continuamente insoddisfatti di ciò che hanno ma non prendono nessuna iniziativa per risolvere la situazione. In parole povere potremmo dire che sono persone che vogliono tutto, ma non desiderano fare nulla per ottenerlo.

Vediamo ora le paure , perché di grandi PAURE si tratta, che stanno alla base di questa situazione di blocco:

  • La paura di esplorare il mondo al di fuori della propria realtà
  • La paura di prendersi la responsabilità delle proprie azioni
  • La paura di dire di “NO”
  • La paura dell’autorità
  • La paura di entrare in una nuova fase

 

Iniziamo ad esplorare il primo punto “la paura di esplorare il mondo al di fuori della propria realtà”.

Ognuno di noi costruisce la propria realtà e si forma un’immagine mentale di come funziona il mondo per sé e per gli altri, così che ogni immagine è unica . Comunicando con un’altra persona, impariamo a conoscere la sua realtà, scoprendo fino a che punto le due immagini si sovrappongono e in che misura differiscono.

Se percepiamo la realtà in maniera simile all’altro, è più probabile che stringiamo amicizia rispetto al caso in cui le nostre interpretazioni del mondo divergano ampiamente. Trovare un’altra persona che condivida il nostro atteggiamento nei confronti della vita è piacevole e confortante perché convalida e rafforza il nostro punto di vista, rassicurandoci nell’autostima. Più persone sono d’accordo con noi e meglio ci sentiamo, sempre più certi di essere dalla parte della ragione.

Di conseguenza tutto quello che è al di fuori della nostra realtà viene considerata una sgradevole e non desiderata intrusione da guardare con sospetto.

Più tempo si sta con quelli che la pensano come noi, e meno si ha la possibilità di allargare i propri orizzonti, e al contempo sarà più probabile farsi turbare da situazioni che escono dai confini della nostra realtà. Questo non significa che sia sbagliato o dannoso condividere le opinioni di molte persone, anzi, tutti noi abbiamo bisogno di sentirci accettati e appoggiati dagli altri. Il punto è che ogni tanto risulta importantissimo avventurarsi al di fuori del proprio contesto, altrimenti si rimane fossilizzati e si diventa inflessibili.

Passiamo ora al secondo punto: “la paura di prendersi la responsabilità delle proprie azioni”.

Nella vita noi tutti dobbiamo fare delle scelte, dalle decisioni quotidiane per il fine settimana o per l’acquisto di un nuovo vestito a quelle più impegnative come l’acquisto di una macchina, la scelta se mettere al mondo un figlio o della carriera professionale da intraprendere.

Da piccoli, ci sentiamo sollevati se i grandi prendono le decisioni per noi, anche se a volte le scelte degli adulti possono non piacerci, ci sentiamo sempre tutelati nella consapevolezza che, se qualcosa va storto, la colpa non sarà mai nostra perché le decisioni non le abbiamo prese noi.

Alcune persone non abbandonano mai questo abito mentale di addossare le responsabilità a qualcun altro; del resto, sentirsi dare la colpa per un errore o per una svista è un’esperienza spiacevole. Più piccola è la stima che si ha di se stessi e più alte sono le probabilità che si cerchi di negare l’errore o che qualcun altro faccia da capro espiatorio, invece di riconoscere la decisione sbagliata e prendersene la responsabilità.

Una famiglia in cui i genitori rimproverano aspramente il bambino per tutti gli errori che commette senza dargli la possibilità di spiegare le sue ragion i può portare, nella vita adulta, alla sua paura di farsi carico delle responsabilità, semplicemente perché a quell’età gli sarà ben radicata in mente l’idea che se qualcosa va storto ci saranno conseguenze spiacevoli.

Resta comunque il fatto che prima o poi è necessario renderci indipendenti dai genitori e cominciare ad assumere le decisioni e soprattutto la responsabilità delle nostre azioni…..

 

Per gli altri punti seguimi nel prossimo post ….

Il complesso di Peter Pan (II parte)

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sindrome peter pan,puer aeternus,autorità,paura di crescere

Dopo una rigenerante , oziosa, e nutriente vacanza eccomi di ritorno con la seconda parte del post …..

Occupiamoci ora della terza paura che sta alla radice del complesso del “puer aeternus”: la paura di dire di no.

Il compromesso rappresenta un ingrediente vitale della società in quanto rende possibile ad un grande numero di persone di vivere insieme ed interagire in maniera costruttiva.

Fare compromessi significa negoziare affinchè si possa ottenere almeno parzialmente quello che si vuole. I problemi sorgono quando ci compromettiamo in situazioni inaccettabili, quando la parola “compromesso” diventa un eufemismo per l’incapacità di dire di “NO”.

Se non riusciamo assolutamente a dire di No, non stiamo prendendo sul serio i nostri bisogni, o noi stessi, e gli altri se ne accorgeranno e ci tratteranno di conseguenza.

Si tratta, quindi, come negli altri casi, di un atteggiamento di autonegazione indice di crescita interrotta.

All’inizio, il mondo di un bambino si limita ai familiari più stretti, genitori, fratelli o sorelle; essi sono tutto quello che ha, e il suo obiettivo principale è quello di essere amato e accettato. Farà, quindi, di tutto per ottenere il loro amore, giungerà perfino a rinnegare i propri sentimenti di odio e di rabbia se l’amore dovuto gli appare difficile da ottenere. Il bambino non può permettersi di mostrare quei sentimenti negativi perché in quel caso i genitori gli vorranno meno bene; di qui, quindi, la sua disponibilità a tollerare ogni scortesia e ingiustizia nella speranza che un giorno la sua pazienza sia ricompensata.

Ma se il tempo passa e la situazione non cambia, la rabbia si accumula e, nel caso non venga mai esternata, essa troverà sfogo interiore provocando frustrazione e, in ultima analisi, depressione.

Da adulto, questo bambino sarà una persona incapace a riconoscere i propri bisogni, e anche se si troverà in una posizione in cui gli sarà possibile soddisfare le sue necessità, non saprà farlo perché non ha mai imparato a rispettare se stesso.

La ferma convinzione che esprimere la propria rabbia sia un errore porta alla frustrazione e all’abito mentale per cui ci si accontenta di quello che si ottiene, con la conseguenza che perfino una piccola quantità di affetto ci sembrerà meglio di niente.

Eccoci alla “paura dell’autorità”.

Peter Pan si rifugia nel suo “Paese Che Non C’è” per sfuggire ad un mondo dominato dalle mamme e dalle tate in cui i bambini devono obbligatoriamente seguire le regole stabilite dagli adulti. Ribellandosi al mondo dei grandi, raduna un gruppo di ragazzi e ne diviene il capo, diventando lui stesso la figura che incarna l’autorità dettando le regole.

Grazie al suo carattere onirico, nel Paese Che Non C’è tutto si svolge senza intoppi, e nessuno del gruppo si ribella mai all’autorità di Peter : è il numero uno naturale perché solo lui possiede poteri magici e quindi non deve temere critiche e opposizioni; il suo talento e le sue capacità lo collocano su di un piano superiore e lo pongono per diritto naturale nella posizione di eroe del suo mondo.

Ma questo è proprio il modo in cui un bambino considera i suoi genitori: creature divine dotate di conoscenze infinite, innumerevoli abilità e poteri magici. Ciò è ben comprensibile se pensiamo che un bambino non ha in pratica nessuna conoscenza, abilità o potere proprio e deve perciò avvertire un senso di meraviglia nei confronti dei grandi e delle loro capacità. Quando si è piccoli l’autorità dei genitori viene di solito accettata di buon grado; tuttavia, l’illusione dell’onniscienza e dell’onnipotenza degli adulti si scontrerà un giorno con la realtà. Per Peter Pan, però, questo processo non avviene mai.

Crescendo, i bambini imparano molte cose e cominciano ad aggiustare il tiro sulle capacità dei grandi, perdendo la loro ammirazione per i genitori; questo processo può risultare doloroso per entrambe le parti e i ragazzi finiscono per non essere più disposti ad accettare l’autorità senza discutere. Inoltre sono bravissimi a rilevare i comportamenti contraddittori e incoerenti dei genitori e li fanno subito notare con grande imbarazzo dei grandi.

Punire costantemente i figli perché ci hanno criticato non aiuta comunque a salvarci la faccia, anzi, suscita solo rabbia. Più sono rigide le regole imposte e più sarà la delusione dei figli quando si accorgeranno che anche i genitori le violano e più aspramente li giudicheranno. Se non ci sono margini di accomodamento per circostanze straordinarie , il mondo viene diviso in giusto e sbagliato, in bianco e nero, in bene e in male, e quando l’ordine viene sconvolto si verificano conseguenze spiacevoli.

La maniera di porsi di fronte all’autorità da parte di una persona riflette la maniera in cui i genitori si sono serviti con quella stessa persona della loro posizione di figure dotate di autorità.

Un’avversione generalizzata per l’autorità è indice di un arresto nella crescita personale ad un certo momento dell’infanzia o dell’adolescenza. Se non riponiamo fiducia in noi stessi, avremo la sensazione di non saper controllare quello che ci accade, sentendoci in balia di tutti quelli che stanno sopra  di noi.

Anche se quando diventati adulti riusciamo a riconoscere i difetti dei superiori, seguiteremo tuttavia a temere la loro disapprovazione; malgrado, quindi, le nostre paure e il desiderio di sfuggire di fronte all’autorità, questo non sarà mai possibile nella realtà perché ovunque andiamo, qualunque professione facciamo, qualsiasi vita possiamo condurre, ci troveremo sempre, prima o poi, a dover fare i conti con persone che occupano una posizione superiore alla nostra.

E dato che la nostra stima personale sarà ad un livello minimo, automaticamente promuoveremo la maggioranza delle altre persone ad un grado di autorità superiore e visto che non proveremo rispetto per noi stessi, gli altri ci tratteranno in maniera irrispettosa il che rafforzerà il nostro senso di inferiorità ….. eccoci quindi intrappolati nel circolo vizioso senza via d’uscita …..

 

Ci ritroviamo nel prossimo post con l’ultima paura e le considerazioni finali ……

Il complesso di Peter Pan (III parte)

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Eccoci arrivati alla parte finale di questo breve viaggio all’interno della Sindrome di Peter Pan , quel particolare comportamento psicologico che si manifesta negli adulti ed è caratterizzato da un comportamento infantile ed un rifiuto di qualsiasi tipo di responsabilità.

L’ultima paura da analizzare è “la paura di entrare in una nuova fase”.

Ci sono nella vita certi momenti in cui è necessario assumere un ruolo diverso, cambiando contesto sociale, passando gradualmente da adolescenti ad adulti, da celibi o nubili a sposati, da marito o moglie a padre o madre e così via.

L’accesso ad una nuova fase avviene di solito grazie ad un processo per gradi, mediante tradizionali riti di passaggio che ci aiutano nella transizione verso il nuovo ruolo. Sono le cerimonie, come i fidanzamenti e i matrimoni, che rendono ufficiale il cambiamento: in questi casi viene dichiarato pubblicamente l’inizio della nuova fase.

Le mutate condizioni di vita contemplano nuovi doveri e responsabilità aggiuntive, ma soprattutto modificano la posizione della persona nella società.

Generalmente i genitori trovano molto difficile accettare che i figli mettano su famiglia e il drago proverbiale della suocera rientra esattamente in questa situazione.

Una donna riesce a fatica a compiere il mutamento da madre (e quindi numero uno nella vita del figlio) a suocera (e perciò numero due); tutti i difetti che le suocere vedono nelle nuore altro non sono che il loro modo di dire al figlio: “non avresti dovuto lasciarmi perché sono ancora io la numero uno”. La madre cioè si tiene aggrappata al vecchio ruolo e rifiuta di mollare la presa anche se la situazione è cambiata. Dal momento che il figlio è stato il punto focale della sua vita è comprensibile che il suo andar via di casa le provochi un turbamento emotivo, e tuttavia, prima o poi, la conversione di ruolo deve realizzarsi.

E’ il forte timore di dover abbandonare uno stile di vita familiare, con tutte le assicurazioni emotive connaturate, che spinge molte persone a resistere al cambiamento. La futura suocera teme di perdere il figlio e di non essere più indispensabile, Peter Pan ha paura di perdere la voglia di divertirsi e di intraprendere nuove avventure, cose che lui associa all’infanzia; entrambi si preoccupano perché si basano sul presupposto, pessimista, che con l’inizio del nuovo ciclo la vecchia fase dovrà essere completamente abbandonata: ma la realtà non è questa.

Anche se muteranno alcuni aspetti, altri rimarranno invariati: Peter Pan lascerà il Paese Che Non C’è, ma il suo spirito di avventura lo indirizzerà verso luoghi capaci ugualmente di soddisfare il suo bisogno di libertà. Invece di perdere i vecchi amici, sarà capace di farsene dei nuovi. La suocera acquista una figlia e le rimane più tempo libero per sviluppare altri interessi, diventando così una donna più attraente.

 

Riassumendo la Sindrome di Peter Pan è un trauma che blocca lo sviluppo emozionale del bambino.

In altri termini, la persona colpita cresce normalmente, la sua intelligenza si sviluppa ma il suo cuore resta bloccato nell’infanzia, come Peter Pan che vive immerso in un mondo meraviglioso, lontano dai problemi dei grandi. Ed è proprio così che  questa sindrome appare all'inizio dell'età adulta.

L’origine della sindrome è da ricercarsi  nella più tenera infanzia,  che  rappresenta il periodo durante  il  quale  ogni  individuo  costruisce  il  proprio  equilibrio  emotivo.  Di  solito  è  l'amore trasmesso  dai  genitori  che  permette  lo  sviluppo  di  questa  armonia.   Quindi  all’origine  della sindrome potrebbe  esserci una  carenza affettiva: chi durante  l’infanzia,  è  stato  poco  amato, rescendo può sviluppare un malessere.

Una  volta  diventato  adulto,  l'individuo  che  ha  vissuto  questo  trauma  durante  l’infanzia,  avrà difficoltà a gestire i propri sentimenti. Si tratta dunque, di una paura cronica che le persone  estranee alle emozioni degli adulti vivono quotidianamente e che spesso genera  tensioni con gli altri. La minima osservazione diventa un ostacolo enorme da superare.

Vi è quindi una sorta di  rifiuto di calarsi nel mondo con le limitazioni che questo comporta. Egli è un essere perfetto che vive in un suo mondo ideale: è vivace, curioso, brillante;ed  ha un'inestinguibile sete di novità,  di esperienze. Inoltre  è egocentrico, impaziente, "al di là del bene e del male",  incapace di fare i conti con la realtà ma è anche  ottimista, impulsivo, incostante. Vive in un mondo che non esiste, l'Isola che non c'è, e non ha nessuna intenzione di abbandonarla, anzi, essa rappresenta per lui l'unica realtà possibile.

Nel suo mondo egli è il padrone assoluto e tutto esiste unicamente per lui, in funzione dei suoi esideri e dei suoi umori. L'unica cosa che conta è stare bene, ed essere felici ma soprattutto  non avere bisogno di nulla e di nessuno. Egli è perfetto in se è una sorta di “ Dio”  a cui tutto è dovuto e davanti a cui il mondo s'inchina ammirato. Le piccole banalità quotidiane, le fastidiose difficoltà della vita gli scivolano addosso.

Il “Puer Aeternus” non ha dolori o affanni, quindi non li può riconoscere nell'altro: una battuta, uno scherzo, ed ecco che se ne va, pronto per un nuovo gioco.  Tutto gli è permesso, senza alcun limite, tempo, spazio e possibilità sono concetti non compresi. Se vuole qualcosa, lo vuole subito, e non contempla la possibilità di non essere esaudito, anzi, non contempla nemmeno il dover chiedere per ottenere.

Egli usa l'intelligenza, ed è estremamente attento al mondo esterno: ma l'attenzione può venire distorta,  nel  tentativo  di  difendersi  da  ciò  che  può  essere  spiacevole.  Attenzione  non necessariamente vuol dire consapevolezza, anzi: qui è spesso un attenzione selettiva che elimina alcuni aspetti di realtà, e porta quindi ad una percezione distorta dell'esperienza.

Il rifiuto della banalità è evidentemente un modo per confermare la propria unicità; la solitudine, l'individualismo e il non adattamento alle regole sociali sono tentativi di alimentare l'ideale di sé.

Talora  accade che il Puer si trasformi in quello che Hillman  chiama Senex (l'anziano),  che il sognatore si trovi ad affrontare la dura realtà, ed assuma un atteggiamento cinico, disilluso e meschino  rinnegando  come  stupidi  sogni  giovanili  la  propria  parte  fanciullesca. Evidentemente questa non è un'evoluzione, bensì il precipitare nella polarità opposta, il rifiutare la parte di sé spensierata in nome di un  amaro materialismo.

Certamente per evolvere, il Fanciullo dovrà affrontare il proprio aspetto ombra, quindi dovrà integrare quegli elementi di concretezza, senso pratico, che appartengono al Senex.

Ciò che davvero manca al nostro Peter Pan è la capacità di amare. Entrare nei rapporti significa esporsi al rischio di soffrire e la fuga dal dolore è quanto di più caratteristico del Puer. Nel suo mondo, naturalmente, il dolore non esiste. Questo però  implica mantenere la distanza, da una parte di sé innanzitutto, e poi dall'altro.

Nella lotta fra emozione e pensiero, quest'ultimo è il vincitore assoluto. Tuttavia, dare spazio all'emozione significa sperimentare la pienezza della vita. In questo senso, il Puer non vive, poiché non è connesso al cuore. La sua vita è nella testa, nelle idee e  nella fantasia. Il potere del sentimento è negato. Egli deve abbandonare l'egocentrismo e calarsi in quegli aspetti della realtà che cerca con tutto se stesso di evitare, una realtà fatta di sofferenza ma anche di profondo nutrimento.

Peter Pan può crescere solo aprendo gli occhi sull'altro. La sua evoluzione passa necessariamente per la scoperta del dolore dentro di sé, che aprirà le porte all'amore.

Egli deve imparare ad amare, innanzitutto se stesso, nella propria pienezza di essere umano, facendo  i  conti  con  i  limiti,  il  dolore,  la caducità.  Da  qui,  egli  potrà  vedere  l'altro  e  amarlo, riconoscere se stesso nell'altro.




Bibliografia:

F.M.Cantaluccio (a cura di)

Peter Pan, il bambino che non voleva crescere

Ed Feltrinelli 

 

 

Scegliere di vivere .....

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Siamo stati messi al mondo senza che nessuno ci abbia chiesto il permesso. Forse, nel cuore del mistero che precede ogni concepimento, abbiamo desiderato esserci, iniziare ad esistere.

Abbiamo ricevuto abbastanza tenerezza e amore da saper perdonare ed amare?? Perché è in ogni momento che dobbiamo scegliere di vivere.

Fin dalla nostra nascita, la realtà si oppone ai nostri piaceri e desideri, mettendoci in una situazione di costante insoddisfazione. Per farle fronte ogni persona dovrà sviluppare un profondo desiderio di vivere, ben sapendo che l’esistenza si incaricherà di farlo vacillare più di qualche volta.

Al di là dei drammi che ci lasciano stanchi e perplessi, ma danno alla vita il suo vero peso di umanità, c’è anche la noia, il grigiore quotidiano, la routine, la banalità. La novità, l’interesse, lo slancio si smussano con il tempo e sopraggiunge l’abitudine che uccide il desiderio.

Occorrono  una forza ed un desiderio straordinari di vita, perché pur tra i rischi, malgrado la casualità e le trappole di questa avventura, due gameti si siano incontrati ed abbiano prodotto un essere umano.

Ognuno di noi in fondo ha desiderato nascere, ha voluto fare la sua comparsa in questo mondo; quelli che non avevano una vera forza di vivere ci hanno rinunciato prima. Siamo tutti liberi di uscire dalla nostra storia quando lo decidiamo, quindi se siamo qui è perché lo vogliamo, vogliamo il mondo qui e ora.

Risolvere i problemi giorno dopo giorno o accettare l’impotenza richiede coraggio, energia ed intelligenza. Così la vita trova un proprio significato, l’uomo diventa adulto e con il tempo acquisisce saggezza.

In “Alice nel paese delle meraviglie”, Lewis Carrol suggeriva un metodo per risolvere i problemi: “Iniziate dall’inizio, disse il re con aria grave, continuate fino alla fine e qui fermatevi”.

Prima di aver esaurito ogni possibilità, chiediamoci: posso tentare ancora un’altra strada? Solo se ci troveremo a rispondere no a questa domanda con massima onestà, potremo fermarci senza rimpianti.

Abbiamo il dovere di provare, non quello di riuscire; la vita è più forte di noi! ….





liberamente tratto da:

E.Giusti - E.Perfetti

Ricerche sulla felicità

Ed.Sovera

Il segreto della felicità

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“Il segreto della felicità non è di fare sempre ciò che si vuole,

ma di volere sempre ciò che si fa” Leone Tolstoj

E’ quello che ognuno di noi vorrebbe conoscere. Per cominciare è bene interrogarci su cosa siamo e su cosa abbiamo fatto per diventarlo. Palese è ciò che intravediamo e sperimentiamo del mondo intorno a noi è piccola cosa rispetto all’immensità invisibile di tutto quello che esso contiene e che genera poi il mondo visibile.

“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”, fa dire Shakespeare ad Amleto, e la felicità sembra appunto provenire dal lato più misterioso della nostra esistenza. Così come la morte è l’altra faccia della vita, l’incertezza è una costante della condizione umana. Mentre la Storia continua e si potrebbe raccontarla uguale e diversa per ogni essere umano. Arriva sempre il momento in cui sentiamo il bisogno di raccontarci, così come per il segreto della tanto agognata felicità.

E’ molto difficile che qualcun altro lo possa scoprire per noi, è un segreto che si può trovare solo con le proprie forze ed è proprio questa la bellezza del suo mistero. Non esiste una ricetta uguale per tutti . La ricerca della felicità, inoltre, offre grande vantaggi rispetto a molte altre attività: non comporta speciali mezzi economici, non presuppone un livello di istruzione elevato, non richiede amicizie particolari o potenti. La felicità è “democraticamente” aperta a tutti!

Oltretutto, la felicità non sembra avere controindicazioni; è salutare tanto per la persona che la scopre, quanto per quelle con cui entra in contatto.

Ognuno arriva alla sua felicità in modo strettamente personale. Verosimilmente, le condizioni della felicità come quelle dell’esistenza dovrebbero essere simili per ogni persona, ma così non è; vi saranno sempre differenze individuali nei mezzi e nelle vie più idonee ed efficaci per raggiungerla.

La tensione alla felicità ha sempre origine da una insoddisfazione di fondo. Una felicità completa, se ci pensiamo bene,  porterebbe all’arresto dell’agire umano. Molte persone, specialmente dopo un periodo critico, provano un senso di oppressione e persino una sorta di dolore provano un senso di oppressione e persino una sorta di dolore spirituale quando trovano un po’ di felicità.

La sensazione di felicità è sempre percezione di un contrasto, che nasce inevitabilmente dall’alternarsi degli alti e bassi dell’esistenza umana. Alla fine questa sensazione continua a rimanere un mistero; la commozione ch proviamo nel riabbracciare un nostro caro a lungo lontano, o la luce che si accende in noi quando comprendiamo che il nostro amore è corrisposto, il sorriso di nostro figlio, sono terremoti di gioia che già per la loro difficile riproducibilità e la loro unicità si sottraggono ad una piena comprensione.

Per difficile che possa essere la vita, siamo di casa in questo mondo. Per questa pura e semplice ragione, aspirare alla felicità non sembra chiedere troppo ….

La felicità è adesso. La vita non è una prova generale per un appuntamento successivo, è qui e ora. L’invisibile attimo eterno che tutti abbiamo cercato è proprio qui, in questo momento ….

Così è necessario essere semplicemente essere se stessi, camminare, correre se lo desideriamo. Sulla nostra vita il sole sorgerà da solo nel cielo, le stelle brilleranno da sole nella notte …..


“Il segreto della felicità è in te, in quella goccia di amore divino

che ti ha voluto fin dall’eternità…” Powell





Liberamente tratto da:

E.Giusti - E.Perfetti

Ricerche sulla felicità

Ed.Sovera

 

 

L’arte di seguire la propria intuizione ….

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Riallacciandomi ad un post precedente e ad una seduta di qualche giorno fa con una mia cliente, vorrei aggiungere ancora qualche riflessione sull’intuizione e su come sia importante per il nostro ben-essere ascoltare la saggezza della nostra voce interiore.

Ascoltare, fidarsi e agire in base alla propria guida intuitiva è un’arte e come ogni arte o disciplina richiede un certo impegno. E’ un processo in continuo divenire in cui siamo sempre sfidati a muoverci ad un livello più profondo di fiducia in noi stessi.

Per molti di noi imparare a lasciarsi guidare dall’intuizione significa vivere in modo nuovo, un modo molto diverso da quello che ci hanno insegnato in passato. A volte questo può apparire alquanto disagevole e anche un pochino inquietante.

Se siamo stati abituati  ad accostarci alla vita in maniera del tutto razionale, a seguire certe regole o a fare quello che pensiamo che gli altri vogliono che facciamo, allora cominciare a seguire il nostro interiore sentimento del vero rappresenta una metamorfosi. E’ quindi naturale che tale cambiamento richieda del tempo, e in certi momenti può essere difficile e spiazzante. E’ necessario quindi , in questo percorso, essere molto indulgenti con se stessi.

In certi casi possiamo essere chiaramente consapevoli delle diverse voci in conflitto dentro di noi. Una parte di noi può sentirsi eccitata dai cambiamenti, mentre magari un’altra parte li vede con terrore. Se saremo in grado di riconoscere e rispettare tutte le nostre diverse voci interiori e le diverse emozioni che emergono, la nostra intuizione ci mostrerà il passo adeguato da compiere.

Quanto più ci abituiamo a seguire la nostra intuizione, tanta più fiducia avremo, perché vedremo che funziona davvero. Non solo non sta accadendo nulla di grave (come nelle nostre peggiori paure) ma la nostra vita sta effettivamente migliorando.

Molto probabilmente ,la nostra intuizione ci darà una spinta gentile per farci prendere dei rischi adeguati e farci sperimentare nuovi copioni. Essa potrebbe cercare di mostrarci che abbiamo una nuova direzione da prendere o che in noi c’è un desiderio che sta cercando di affermarsi. Proviamo a concederci il permesso di provarci, seguiamo il nostro impulso intuitivo e stiamo a vedere cosa succede. Potrebbe aprirci una nuova porta. Potrebbe darci la chance di scoprire un nuovo lato di noi che non avevamo imparato ad esprimere fino ad ora.

Mentre apprendiamo a vivere seguendo l’intuizione, potremmo scoprire che anche il processo decisionale cambia, invece di cercare soltanto di figurarci le cose nella mente immaginando come potrebbero cambiare, impariamo a fidarci della nostra “vocina saggia” cominciando ad esplorare le possibilità  che essa ci offre.

Certe persone temono che fidarsi dell’intuizione possa portarli a fare cose da puri egoisti, da irresponsabili o cose che danneggiano gli altri. In realtà è vero il contrario. Siccome l’intuizione è connessa con la nostra parte più autentica essa ci guida sempre verso il nostro bene e di conseguenza verso il maggior bene delle persone coinvolte.

Può accadere, tuttavia, che seguendo la nostra intuizione e comportandoci in modi differenti le altre persone rimangano deluse o turbate. Per esempio, se siamo una persona abituata a compiacere gli altri, la nostra intuizione potrebbe spingerci a imparare a dire “no” quando davvero non vogliamo qualcosa e a porre confini più fermi con le persone. Dapprima questo potrebbe portare scompiglio e delusione ma a lungo andare, tuttavia, il rapporto ne beneficerà proprio in virtù della nostra maggior congruenza tra i nostri bisogni e le nostre azioni.

Mentre imparano a seguire l’intuizione, certe persone attraversano un periodo in cui sembra che la loro vita vada in frantumi. Certi rapporti possono finire o cambiare drammaticamente. Tutto ciò è indizio del fatto che si sta abbandonando certi aspetti della vecchia identità, dei vecchi copioni; se opponiamo resistenza cercando di trattenerli finiremmo per limitare e imprigionare noi stessi.

E’ questione di aver fiducia nel fatto che, anche quando le cose non stanno andando esattamente nella direzione sperata, il percorso ha una sua profonda coerenza. Nuovi rapporti interpersonali, una nuova creatività, un nuovo lavoro possono apparire all’orizzonte riflettendo la nostra maturazione e il nostro sviluppo.

Imparare a seguire l’intuizione può talvolta darci l’impressione di vivere sull’orlo di un precipizio. In un certo senso, significa imparare a vivere senza quel falso sentimento di sicurezza che proviene dal cercare di controllare tutto quello che accade. Gradualmente diventiamo meno timorosi e impariamo a convivere con l’incertezza. Possiamo addirittura imparare a godere del fatto di non sapere molte cose. E’ in effetti una sensazione molto eccitante e rivitalizzante.

Possiamo imparare a muoverci nell’ignoto confidando nel fatto che abbiamo in noi una forza che ci guida e che ci indica la strada.

 

“Tutto diventa più chiaro se smettiamo di capire e

ci affidiamo all’intuizione, a un altro modo modo

di vedere il mondo…”

Raffaele Morelli

Tutto è relativo .....

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L’importanza di ogni cosa non è in essa, ma in noi.

Siamo noi che le attribuiamo più o meno potere in funzione di due parametri fondamentali: l’ambiente e noi stessi.

L’ambiente è il primo elemento, rappresenta la situazione, il contesto in cui una persona, oggetto o cosa può manifestarsi ed espandersi oppure soffocare e scomparire.

Se decidete di aprire un chiosco di gelati al Polo Nord, in mezzo al ghiaccio, attirerete molti clienti? Evidentemente no. Se apriste lo stesso chiosco di gelati in una spiaggia affollata dei Caraibi, sicuramente avrebbe una risposta diversa.

Tutto è relativo e l’ambiente può fare un’enorme differenza sull’importanza e il potere che una cosa può avere.

Ecco che per trascendere qualsiasi situazione di disagio, di sofferenza, è necessario andare oltre l’ambiente circostante, proiettandoci mentalmente ed emotivamente al di fuori di quella realtà che ha potere su di noi, nella misura in cui ignoranza, paura, impotenza permeano l’aria che respiriamo.

Arriviamo dunque al secondo elemento fondamentale. Noi stessi.

Di fronte ad ogni situazione, siamo noi che facciamo sempre la differenza. Per come ci sentiamo in quel momento, il bicchiere può apparire mezzo pieno o mezzo vuoto.

Ed è sempre una scelta nostra. Ogni situazione fa parte di un progetto molto più vasto e importante, che al momento va al di là delle nostre percezioni.

E sapere che tutto è “impermalente”, tutto nasce e muore nel ciclo perpetuo della vita ci deve trasmettere una sensazione di serenità. Perché nel momento in cui riusciremo a comprendere il dono contenuto in tutto ciò che ci accade, saremo in grado di passare oltre.

Quindi nulla accade per caso. Tutto è in funzione del nostro cammino, e cammino vuol dire crescita.

Ogni cosa dunque non ha potere in sé ma lo acquisisce nella misura in cui noi glielo attribuiamo.

Un granello di sabbia fa parte della spiaggia, la spiaggia fa parte di un territorio. Il territorio fa parte della terra e la terra fa parte dell’universo.

Evitiamo di trasformare ogni granello di sabbia in una montagna insormontabile. Osserviamo ogni cosa, situazione per quello che è, semplicemente un granello di sabbia.

E’ molto più facile spostare un granello di sabbia invece di una montagna, e poiché l’una e l’altra sono una proiezione dei nostri pensieri, spetta a noi, in ogni momento, decidere cosa vogliamo vedere …..


I fili della vita ....

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Chi muove i fili della tua vita???

Solo tu! Nessuno attorno a te è responsabile di quello che accade nella tua vita.

Tu sei l’unico responsabile, tutto prende vita da te, dai tuoi pensieri, dalle tue emozioni.

E’ necessario che tu ti assuma la piena responsabilità della tua vita.

Nessun altro può farlo per te. Spesso cerchiamo l’appoggio degli altri, cerchiamo di delegare, di trasferire, di scaricare perché così è più semplice. E’ meno faticoso aggrapparsi a qualcuno e farsi trainare, sicuramente è un vantaggio, ma solo apparente.

Le tue gambe, a lungo andare, si indeboliscono, perdi l’allenamento, perdi la tonicità fisica e la forza emotiva. Prima o poi quel qualcuno al quale ti aggrappi si stancherà, e ti troverai a dover proseguire con le tue gambe, oppure semplicemente ti fermerai ad aspettare il prossimo aiuto.

Questo è il percorso di una vita in superficie, di una vita “sopravissuta”, in balia degli altri, di quello che gli altri decidono pr se stessi e per te.

Spesso non vogliamo né decidere, né agire, perché preferiamo siano gli altri a farlo per noi. E’ questa una vita basata sui contrasti, sulle frustrazioni, sui rimpianti, sui mille “perché”, e semplicemente non ci rendiamo conto che stiamo vivendo una vita aliena. Ma a molti questo ruolo piace e diventano dei maestri nell’agirlo.

Vivono di luce riflessa, dei pensieri, delle abitudini, dei comportamenti di qualcun altro. E alla fine questa proiezione diventa un’abitudine così radicata da creare una nuova realtà basata sull’illusione.

Ma come ogni illusione, prima o poi dovrà fare i conti con quello che siamo noi.

E’ il nostro sé più profondo che chiederà di essere ascoltato e di emergere dal mondo virtuale dove l’abbiamo confinato.

E tu pensi di impedirti di ascoltarla??

Assolutamente no, la sua voce si farà via via più forte e se sarà necessario ti metterà con le spalle al muro, così che tu trovi il modo e il tempo di ascoltarti e decidere di ri-trovarti.

Questa è la via, l’unica via per vivere pienamente.

Molte persone vivono in profondità, non in superficie.

Hanno capito che ai loro pensieri, alle loro emozioni, ai loro stati d’animo, va riservata un’attenzione costante e consapevole.

Hanno pieno controllo della loro vita semplicemente perché hanno accettato la piena responsabilità di esserne creatori.

Hanno imparato a osservare prima con gli occhi del cuore e poi con gli occhi della mente, sia attorno a sé, che dentro di sé.

Da questa osservazione attenta e costante hanno intrapreso azioni dirette, attivandosi per raggiungere quel ben-essere che molti aspettano dagli altri.

Dunque, chi muove i fili della tua vita?

Tu e soltanto tu. E se non lo hai fatto fino ad ora, forse è il momento di iniziare ……

Il pensiero degli altri .... (I parte)

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Quanti dei nostri pensieri sono davvero nostri e quanti sono invece frutto di condizionamenti?

La sproporzione è impressionante: sin dalla più tenera età ci vengono proposti modelli e schemi, e sostanzialmente questo continua per il resto della nostra vita. Certo, impariamo a leggere, a scrivere, a fare i conti, storia, geografia e tante cose ancora, e impariamo a come usare il computer o come guidare l’automobile. Impariamo soprattutto a copiare esattamente, mentre viene poco o per nulla favorito il pensiero autonomo.

Anzi, spesso, questo viene vissuto come scomodo e potenzialmente pericoloso. Le rivoluzione non sono forse nate tutte da pensieri fuori dagli schemi imposti?

Questo pensiero condizionato è particolarmente nefasto per quanto riguarda l’opinione degli altri su di noi: perché senza neppure accorgerci l’abbiamo fatta nostra ogni giorno della nostra vita.

Il più potente freno al cambiamento da parte nostra è proprio l’opinione ormai preformata degli altri e il nostro accordo, consapevole o più spesso inconsapevole, su di essa.

Come mai restiamo poco soddisfatti dalla maggior parte delle nostre fotografie e dei nostri video? Una delle ragioni è certamente che noi ci vediamo in modo diverso da quello che può essere un punto di vista esterno. Eppure finiamo con il fare nostre, senza accorgercene, le opinioni che gli altri hanno su di noi, a partire dai genitori.

Per modificare questo stato di cose e decidere davvero noi stessi come vogliamo essere, può essere utile un primo esame: capire come davvero ci vedono gli altri.

Non è facile, perché le emozioni, i sentimenti di discrezione, di timore, di rivalsa e molti altri ancora rischiano di inficiare i giudizi espressi anche dalle persone più vicine a noi.

Un piccolo trucco è la compilazione di un elenco, volutamente neutro e piuttosto lungo, di caratteristiche, in cui si dà il meno possibile una valenza ai singoli aspetti del carattere e degli atteggiamenti personali; ad esempio:

  • Comprensione dei problemi degli altri,
  • obiettività di giudizio,
  • modestia,
  • cura della propria persona,
  • memoria,
  • modo di dare collaborazione,
  • modo di ascoltare,
  • modo di parlare,
  • atteggiamenti,
  • abitudini  
  • preferenze,
  • piccole manie,
  • senso di responsabilità,
  • disponibilità,
  • ospitalità,
  • generosità,
  • modo di reagire in situazioni di stress, situazioni affettive, situazioni quotidiane.

Allungate l’elenco a piacere; potete mescolare le voci oppure raggrupparle.

Poi pregate diverse persone di leggerlo attentamente e di sottolineare con una matita verde quegli aspetti di voi che a loro piacciono e che magari vorrebbero rinforzare; e con una matita rossa gli aspetti critici, cioè quelli che non condividono.

Questo esercizio ha il vantaggio di non mettere in imbarazzo la persona intervistata e di causarvi minore coinvolgimento emotivo alla lettura; e al tempo stesso, specie se confrontate i risultati di diverse “interviste”, potete formarvi un’idea abbastanza chiara circa l’opinione degli altri sul vostro conto.

Non piacete a tutti? Pazienza! In fondo, a voi piacciono proprio tutti?

Inoltre siete d’accordo con quanto gli altri dichiarano di pensare su di voi? Attenzione, non è affatto detto che loro vi vedano nel modo più giusto, ma sarà comunque difficile togliere quella etichetta che ormai, nella loro mente, vi hanno messo.

E il vostro problema sta non nel convincerli che si sbagliano ma nel vedervi per quello che realmente siete e soprattutto per quello che potete diventare avendo fiducia nel vostro potenziale….

 

…. Segue nel prossimo post

 

Il pensiero degli altri .... (II parte)

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Un altro argomento è: come vedono i vostri problemi le persone intorno a  voi? Ovviamente, conoscerne le cause è molto importante, e a volte noi non siamo in grado di raggiungere un distacco sufficiente a vederle.

Purtroppo tendiamo a chiedere consiglio agli altri per ricevere conforto e conferma della nostra presunzione di essere nel giusto; ma questo ha mai risolto qualche cosa?

Più spesso abbiamo già le soluzioni dentro di noi, ma è doloroso vederle; quindi speriamo che gli altri possano offrirci soluzioni alternative meno traumatiche.

Spesso per farci accettare dagli altri arriviamo ad ogni sorta di sotterfugio. Come quello di parlare in “negativo”. Quindi di finire con il pensare in negativo.

Un po’ per abitudine, un po’ come giustificazione per piccoli o grandi errori o ancora per (falsa) modestia, arriviamo a dire e a ripetere cose come: “Non sono dotato per le lingue”, “la matematica non è il mio forte”, “non ho memoria per le date”, “non riesco a capire” … e così via.

D’accordo, è una convenzione sociale, è “solo” un’abitudine. Ma è nefasta. Perché il pensiero, come ben sappiamo, è il motore più forte che esista per mettere in moto reazioni e fatti; quindi, ogni volta che affermiamo una cosa, la rafforziamo ulteriormente (leggi QUI e QUI )

Altrettanto diffusa è l’affermazione: “Si fa così”. Se per esempio cercate di comprendere perché vi suggeriscono (o impongono) di svolgere un lavoro in un dato modo, è facile sentire la questa risposta. Tuttavia è sempre lecito, anzi doveroso, chiedere “perché?” e “chi l’ha detto?”. Solo grazie a domande di questo tipo è stato possibile agli esseri umani progredire, inventare, cambiare.

Tutti vorremmo essere amati e apprezzati dagli altri ma spesso finiamo con il vivere in funzione di questo, o per dimostrare che abbiamo ragione, che siamo buoni, che abbiamo valore etc…

Tutti hanno aspettative su di noi, a partire dai genitori, fino agli amici e al datore di lavoro. Si potrebbe dire che tutti hanno nella mente un “programma” per noi: su come dovremmo agire, ragionare, comportarci.

Noi possiamo soddisfare o deludere queste persone, ma siamo qualcosa di diverso da quel programma.

Se per caso noi “deludiamo” queste persone, loro sopravvivono. E noi, nel tentativo di essere all’altezza delle loro aspettative? Noi rischiamo di identificarci totalmente con quello che produciamo o rappresentiamo o interpretiamo al punto di perdere la nostra identità e di diventare incapaci di creare qualche cosa di nostra volontà.

Identificarsi con un ruolo è sempre un affare ad alto rischio, sia che si tratti di un ruolo scelto da altri per noi, sia che riteniamo di averlo forgiato a nostra misura; in ogni cosa ci toglie la facoltà di osservare “da fuori” e di scegliere di cambiare liberamente.

Se noi non siamo (a ragion veduta e non per comodità) d’accordo su un giudizio negativo di un altro su di noi, il “problema” è dell’altro che non ha osservato bene o non ha compreso. Può dispiacere, ma non toglie nulla alle nostre qualità.

Se riusciamo a vederci senza illusioni, ma ugualmente con comprensione e amore, ci sono due possibilità: l’altra persona si convincerà da sola, osservando meglio; oppure non si convincerà e allora noi non abbiamo perso granchè.

Non fare agli altri … quello che non vorresti fosse fatto a te. E non pensare degli altri … quello che non vorresti che loro pensassero di te.

Vi propongo un esercizio. Prendete cinque fogli e scrivete su ognuno il nome di cinque persone che conoscete. A sinistra scrivete le cose di loro che ritenete positive, a destra quelle che pensate siano negative. Datevi due minuti per compilare ognuno dei cinque fogli.

Ora esaminate il risultato. Credete che piacerebbe alle persone esaminate? E a voi piacerebbe se gli stessi giudizi fossero stati espressi sul vostro conto?

Se la seconda risposta è “no” può darsi che vi siate attorniati di persone non particolarmente positive. Se anche la prima è “no”, la situazione potrebbe essere ancor più critica: forse siete più severi con gli altri che con voi stessi.

Quello che pensiamo degli altri ci torna indietro. I pensieri sono vibrazioni che vengono decodificate dal cervello. Le vibrazioni simili vengono riconosciute e riattivate più facilmente. Quindi nonostante un nostro sorriso di circostanza, un pensiero poco gentile viene registrato e riconosciuto dall’altra persona, e sotto una forma o l’altra riceveremo pan per focaccia.

Se per esempio diamo per scontato che “non cambieranno mai”, rafforziamo questa eventualità  avendo poi a che fare con persone che davvero non cambiano.

Goethe disse “Tratta le persone come se fossero già quello che dovrebbero essere; aiutale a svilupparsi al massimo della loro potenzialità”. Questo significa credere negli altri. Non ciecamente bensì tenendo conto delle loro possibilità, come vorremmo che facessero loro con noi.

E significa anche evitare di giudicare le persone in modo utilitaristico, in funzione di quanto possano essere utili a noi, bensì semplicemente accettarle nella loro unicità e complessità …..

Analizzare o comprendere? …. riflessioni sparse

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Pensare positivamente non significa “sezionare” all’infinito le cose, perché questo ci porterebbe facilmente ad accusare gli altri e a giustificare noi stessi.

Finalità e nuovo punto di partenza è la “comprensione”. Quella comprensione globale, olistica, che può diventare una sorta di solvente universale.

Analizzare non sempre aiuta. Proviamo ad abbandonare l’abitudine, più o meno radicata in noi tutti, di cercare le cause dei problemi presso gli altri o nel “sistema”. Anche se questo fosse vero (e spesso lo è, almeno in parte), questo pensiero non ci porta lontano: non ci aiuta a risolvere nulla, anzi ci blocca nella passività.

Se invece ci chiediamo: “quale è il contributo che ho dato a creare o a mantenere in vita questo problema?” siamo più disposti a cercare delle soluzioni. Soluzioni nuove, creative anche paradossali. Che potrebbero sembrare insignificanti rispetto all’importanze del problema, ma che potrebbero benissimo funzionare.

E’ difficile andare d’accordo con qualcuno? Lo sarà certamente meno quando si prova a comprendere davvero l’altro: i suoi punti di vista, le sue caratteristiche, i suoi condizionamenti. Se la comprensione all’inizio è difficile, è comunque doveroso partire da un punto fondamentale: il rispetto. Da lì si arriverà a poter augurare di cuore ogni bene, nonostante le diversità e le divergenze.

E’ inutile dire. “il tale mi ha fatto arrabbiare”. Siamo stati noi a lasciare che qualche cosa scatenasse in noi emozioni negative; abbiamo dato il nostro accordo e la nostra collaborazione.

Tuttavia abbiamo anche diverse alternative, per esempio quella di ammettere che avvertiamo l’insorgere di una emozione negativa, ma poi scartarla (consapevolmente) perché comprendiamo che inutile e dannosa. In questo modo non avremo risentimenti verso l’altra persona e non ci troviamo neppure a dover perdonare, né lui né noi stessi, per una situazione spiacevole o una incomprensione.

Osservazione

Spesso un malumore, anche improvviso, guasta il clima. Se non si comprende l’origine del malumore è più difficile ricucire lo strappo. Ma pensate cosa succede quando fate una indigestione. Se passate in rassegna gli ultimi cibi che avete mangiato, riuscite ad individuare facilmente quello che vi ha creato problemi, perché il solo ricordo aumenterà il senso di nausea.

Nello stesso modo potete chiedervi che cosa è successo subito prima che insorgesse il vostro stato di disagio, il vostro malumore. Magari una frase o anche solo una parola o un gesto vi hanno ricordato un evento spiacevole che potrebbe essere lontano nel passato e che forse non ha nulla a che vedere con la persona o il contesto attuale. Comunque , vedere che cosa avete “agganciato” dissolverà la nube; vi aiuterà a tornare più sereni e a giudicare obiettivamente la situazione e la persona che avete di fronte.

Provate ad osservare la realtà sempre senza dare etichette o giudizi. Prendete semplicemente atto di quello che si trova lì, come emozione o come pensiero. Dentro di voi potete dire all’emozione o al pensiero “va bene, ho notato che sei lì” e poi andare oltre in quello che state facendo.

Avete mai osservato i gesti e i modi di dire ripetitivi che quasi ognuno di noi ha? Può trattarsi di un intercalare come “cioè”, “dunque”, “in pratica”, “in realtà” o molti altri, o vezzi come sbuffare, aggrottare la fronte, accarezzarsi il mento o i capelli, mordersi le labbra o le unghie, schioccare le dita etc…  Queste abitudini hanno tutte un significato più profondo di quanto appare a prima vista , fanno parte del linguaggio non verbale proprio di ogni persona e possono essere rivelatori, più di mille parole, della qualità del pensiero. Provate ad osservare semplicemente, senza assegnare giudizi, quelle parole e quei gesti . Osservateli negli altri e in voi stessi vi potranno aiutare a comprendere molto di voi stessi e di chi avete davanti.

Azione

“Ogni cosa a suo tempo”, recita un antico adagio. La corretta sequenza è: Osservare, Decidere, Agire. Ma ci sono momenti in cui rischiamo di re-agire. Quel che facciamo cioè non è determinato dalla nostra volontà ma è semplicemente la risposta automatica ad uno stimolo esterno. E’ in questi momenti che rischiamo di agire in modo irrazionale ed emotivo.

Pertanto, tutte le volte che abbiamo la sensazione di non essere noi a scegliere come agire, attendiamo. Prendiamo tempo senza timore di esprimerlo.

O, se ci sentiamo troppo agitati per parlare in modo pacato, ritiriamoci. Attendiamo: il famoso “contare fino a dieci” nasconde una profonda saggezza.

Agire infatti non è qualcosa di automatico. Quando lo diventa può danneggiarci. Prendiamo ad esempio una persona che mangia come un automa, senza neppure rendersene conto. E’ facile che non si accorga di mangiare troppo e oberare così il suo organismo di un superlavoro di digestione e magari di un peso eccessivo.

Oppure potrebbe mangiare troppo in fretta, arrivando all’acidità gastrica e infine all’ulcera. O ancora potrebbe non accorgersi di mangiare cose che le fanno male.

Se avesse scelto di mangiare con calma e attenzione, concentrandosi esclusivamente su quell’azione in quel momento, avrebbe potuto evitare parecchi guai.

 

Sul "qui e ora" ....

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Un proverbio cinese recita: “l’unico luogo in cui vivere è qui, l’unico tempo in cui vivere è ora”. I latini dicevano hic et nunc,; “qui e ora”. Epicuro esortava: “carpe diem”, cogli l giorno.

Il presente costituisce la parte più importante dell’esistenza, l’unica cosa che abbiamo “qui e ora”; viverre in esso non significa cancellare o rinnegare il passato, quanto ci è accaduto. Il passato è importante perchè contiene le tappe della nostra evoluzione; da come eravamo a come siamo diventati. Insomma racchiude la nostra storia. Dovremmo imparare a considerare il passato con spirito critico e distacco per quanto è possibile, senza cadere nella trappola di una sterile nostalgia. Se sapremo prendere le distanze, quando necessario, dai principi, dalle idee, dagli schemi mentali dettati da altri e da noi stessi, quando questi ci appaiono inopportuni e superati, il passato potrà insegnarci qualcosa.

Vivere nel presente non significa neppure non pensare al futuro, essere imprevidenti, non dare un minimo di programmazione alla nostra vita, ponendoci obiettivi e facendo progetti. Non bisognerebbe farsi ossessionare dai nostri fantasmi, dalla paura di vivere, altrimenti le nostre potenzialità e risorse vengono soffocate, i nostri orizzonti si chiudono, la nostra libertà è compressa.

L’intera nostra vita è fatta da attimi e noi dovremmo riuscire a cogliere di essi il massimo ,con disponibilità e consapevolezza.

Se prima di poter amare noi stessi aspettiamo di raggiungere la perfezione, avremo sprecato la nostra vita. Siamo già perfetti, proprio ora e in questo luogo.

Dovremo allenarci a pensare che la realtà è sempre aperta e mutevole, e quindi a non temere i grandi spazi né le grandi opportunità che la vita ci offre.

Impariamo a vedere il presente per quello che è: un luogo infinito dove tutto possiamo osare e nel quale tutto può accadere. E’ a questo punto che potremmo sperimentare emozioni e sentimenti molto intensi, e avere più fiducia e stima di noi stessi.

I sentimenti, così come le emozioni, sono multidimensionali e contengono elementi istintivi, intuizioni, esperienza fisica e sensoriale.

Quando avremo imparato a vivere veramente “l’attimo fuggente”, scopriremo con meraviglia e sorpresa che non vi è più spazio né tempo per rimpiangere il passato o temere il futuro.

 

“ Non esiste il passato, ma solo il presente del passato

(che si chiama memoria). Non esiste il futuro, ma solo

il presente del futuro (che si chiama speranza). L’unico

ad avere qualche probabilità di esistere potrebbe essere

il presente del presente (che poi in ultima analisi sarebbe

l’intuizione)” L.De Crescenzo – Il tempo e la felicità -



liberamente tratto da:

E.Giusti - E.Perfetti

Ricerche sulla felicità

Ed. Sovera

Sperare è potere ....

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La mia autostima alimenta la speranza. Solo se mi riconosco, se mi considero di valore, se mi reputo degno di felicità, se sono consapevole delle mie potenzialità e della forza che posso esprimere, sono anche in grado di desiderare.

La speranza è desiderio e configura un futuro auspicato, ma incerto nella sua realizzazione. La speranza può assumere le forme immaginarie di uno scrittore, la visione di un leader, la strategia di un giocatore, i sospiri di un innamorato. In tutti i casi è movenza attiva e non semplice attesa.

Per scatenare le migliori energie, la speranza deve fare i conti con il principio di realtà, ovvero è necessario ancorare i desideri al possibile e al potenziale. La speranza è tale solo se configura un’utopia possibile, un luogo che non è presente, ma è realisticamente raggiungibile.

E’ la speranza di Colombo, armato di centinaia di mappe, di infiniti giorni di calcolo, di equipaggi professionali, di navi forti e capaci di solcare tempeste, e soprattutto delle sue capacità di navigatore.

Colombo è stato protagonista di un incredibile fallimento: doveva cercare la strada più breve per le indie, ha trovato quella più lunga ……  Ma anche nel fallire possiamo ottenere risultati inaspettati!

E’ il principio di realtà che trasforma l’utopia in programma, obiettivi, strategie di azione. In questo senso la speranza è un fatto di prassi, si azione di iniziativa, di espressione concreta dei propri sogni, di analisi attenta del reale.

Ma l’analisi del reale non è mai soggettiva. La speranza permette all’osservatore di avere una visione attiva della realtà, dal punto di vista del suo possibile cambiamento.

Colui che spera cerca nella realtà le leve che possano permettere di realizzare quello che desidera. La fondazione pratica della speranza dipende dal numero di alleati che riesce a mobilitare intorno a sé. La presenza o assenza di alleati rappresenta l’ecologia della speranza.

Come il pessimista non farà altro che cercare conferme alla sua impotenza, colui che spera cerca indizi che lo conducano alla meta. Mosso dalla volontà di realizzarsi, cercherà nella realtà tutte le opportunità per farlo.

Colui che non ha desiderio, cercherà nella realtà chi gli offre prima un lavoro, qualunque esso sia. Il pensiero caricato dalla speranza, non può contemplare l’esistente, non può fermarsi e osservare; è carico di azione potenziale.

Viviamo in uno dei paesi più ricchi del mondo, eppure sembra che non ce ne accorgiamo …. Se alziamo lo sguardo in cerca di modelli, possiamo vedere centinaia di migliaia se non milioni di uomini e donne che si muovono sul pianeta mossi dalla speranza di una vita migliore. Sfidano stati canaglia, mafiosi senza scrupoli, mari in tempesta, popoli pregni di razzismo, perché animati dalla speranza. Invece di averne paura dovremmo imparare da loro …

La speranza è vita attiva !!!!!

Ricercatori di noi stessi …..

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Che magnifico spettacolo intrattiene la vita!

E ogni essere vi partecipa recitando una parte. Ciascuno di noi mentre mette in atto la parte che gli compete, assume  di volta in volta dei ruoli diversi. Inoltre, ogni attore, mentre interpreta il personaggio del momento, interagisce con gli altri e, consapevolmente o meno, contribuisce alla realizzazione dei loro copioni. Lo spettacolo che ne risulta è immenso e affascinante. Tuttavia, i singoli attori sono così compresi dal ruolo che stanno recitando, che solo raramente si interessano allo spettacolo nella sua complessità, oppure al suo funzionamento; soprattutto, di rado indagano per scoprire se esso sia reale o illusorio. Quando accade, significa che faceva parte del loro copione.

Fu così che, tanto tempo fa, due personaggi qualunque, un uomo e una donna semplici conoscenti, si incontrarono “per caso”. Mentre chiacchieravano del più e del meno, l’uomo sentì la necessità di pronunciare questa frase: “Sii te stessa!”.

In un lampo, un brivido intenso percorse il corpo della donna dalla testa ai piedi e si sentì catapultata in un’altra dimensione. Lì tutto sembrava cristallino. Il tempo, lo spazio, il mondo e persino il suo corpo, non c’erano più. L’unica cosa esistente, che era anche il tutto, era qualcosa di morbido che palpitava e irradiava un senso di pienezza totale. Si accorse che non riusciva più nemmeno a pensare.

“Sii te stessa” sembrava aver agito su di lei come la frase magica del gioco delle statuine. Poi, lentamente e come se arrivasse da lontano, nella sua mente fece capolino un pensiero che assomigliava ad un dubbio esistenziale: “Essere me stessa? Vuol dire che sono un’altra e non me ne sono neanche accorta? Che cosa è questo incubo?”

Quando finalmente si riprese, un po’ confusa e disorientata, chiese: “Che cosa intendi con questo?”

E l’altro rispose: “Sii come sei”.

“Ahi dalla padella alla brace!”, pensò la donna. Da quel momento in poi, per giorni, settimane, mesi, aveva continuato a rimuginare: “Chissà cosa avrà voluto dire? E cosa significa esattamente ‘essere me stessa o ‘essere come sono’ ?”.

In seguito, la donna capì che quelle erano state le prime battute di un ruolo che avrebbe recitato per molti anni: quello di ricercatore di sé.

E tu che mi stai leggendo in questo  momento, che ruolo stai recitando ora?

Quando stai per entrare in un nuovo ruolo, accadono spesso situazioni particolari che ti aiutano a calarti nel personaggio. Ma dopo un po’ te le dimentichi.

Poi, ad un certo momento della vita arriva, ospite a volte inatteso, il desiderio di cercare questo “se stessi”. All’inizio questo desiderio, come gli altri d’altronde, è un optional, cioè puoi fare qualcosa per soddisfarlo oppure no; non è fondamentale per la tua vita. Ma dopo un po’, da desiderio diventa bisogno e allora preme, spinge per essere realizzato. Diventa una specie di tarlo mentale: rode, e rode, e ancora rode!

Da un giorno all’altro diventi un “ricercatore di te stesso”! Strano mestiere! Che tu lo faccia part time oppure a tempo pieno, non è contemplato in nessuna categoria lavorativa. E non ti paga nessuno, anzi, ti tocca spendere un sacco di soldi, di tempo ed energia come cercatore di verità. Eh, sì, perché non ti accontenti di qualsiasi risposta, tu vuoi la Verità!

Quando cominci a esercitare il tuo mestiere di ricercatore ti accorgi ben presto che altri prima di te si sono trovati nella necessità di placare il tarlo. Anzi, molti, come Platone, sono convinti che “una vita senza la ricerca non è degna di essere vissuta”.

Nei primi tempi in cui il desiderio è appena comparso, ti puoi anche chiedere” Che cosa avrà di così importante questa ricerca?” E magari ti trovi a leggere, come risposta non cercata, frasi come quella incisa sul frontone di ingresso dell’oracolo di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso e conoscerai l’universo”.

E tu potresti replicare: “Dopotutto, io voglio conoscere solo me stesso! L’universo è troppo grande e lontano da me!”

E invece, se decidi di andare avanti con la ricerca, ti toccherà inghiottire in un sol boccone te stesso e l’universo ….. buona digestione …..

 

“Per gli uomini non esiste nessunissimo dovere,

tranne uno: CERCARE SE STESSI,

consolidarsi in sé,

procedere a tentativi per la propria via,

ovunque essa ci conduca…” H.Hesse

 

 

 


La biblioterapia

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Si parla sempre più spesso di “biblioterapia”, termine che nel suo significato etimologico (biblio=libro) significa “terapia con il libro” da cui l’accezione più comune di “libro terapia”. Con tale espressione si indica, infatti, l’importanza della lettura come strumento di crescita personale e di conoscenza di sé, tanto da essere usata anche a scopo terapeutico.

“ il termine “biblioterapia” “ , scrive la dottoressa Rosa Mininno, psicologa e psicoterapeuta “si intende la terapia attraverso la  lettura   come strumento di promozione e crescita culturale personale e collettiva, come strumento di autoaiuto, di acquisizione di conoscenze e promozione di consapevolezza in situazioni di disagio psicologico e sociale oltre che come tecnica  psicoeducativa e cognitiva in ambito psicoterapeutico.

“Prescrivere un libro “ in psicoterapia aiuta la persona sofferente a riflettere su di sé, a confrontarsi, a potenziare le sue capacità  cognitive ed emotive sviluppando risorse ed abilità  empatiche, acquisendo conoscenze ed elaborando strategie di gestione del disagio psicologico adeguate ed efficaci. […] “ La lettura e il libro diventano allora strumenti di promozione della salute e del benessere personale” (fonte: http://www.biblioterapia.it/intro_biblioterapia.html).

Leggere dunque è un modo importante per prendersi cura di sé, poiché ogni libro è un universo. I libri regalano benessere, sono una finestra sul mondo e una “farmacia dell’anima”. Sono amici fedeli e inseparabili, soprattutto in momenti di sconforto e solitudine.

Un rapporto d’amore vero quello con il libro, nella consapevolezza che ogni pagina  parla sistematicamente di noi e ogni lettura non è altro che la decifrazione di una parte diversa di noi stessi.

Molti forse non sanno che è sempre più diffusa tra le cliniche e le strutture ospedaliere la pratica di utilizzare i libri in terapia, poiché, se scelti in modo oculato dal medico a seconda delle singole patologie e degli specifici casi, sembrano agire in profondità più di ogni altri farmaco e “trasformano” operando il salto, il necessario “cambiamento”.

“Molti clinici – continua al dottoressa Mininno – di diverso orientamento psicoterapeutico adottano la biblioterapia come un “homework”, un compito a casa e “prescrivono” la lettura di un libro specifico ai propri pazienti in grado di aiutarli nel percorso terapeutico” Cosa che spesso faccio anche io nel mio lavoro di Counseling, suggerendo ai clienti letture che possano chiarificare quello che stanno vivendo oppure letture in cui identificandosi con il protagonista della storia possano immaginarsi fuori dal disagio che stanno attraversando.

In Italia fautore della diffusione della biblioterapia è Andrea Bolognesi, che ha rintracciato l’interazione tra specifiche letture e corrispondenti obiettivi terapeutici. Sembra che Camilleri aiuti gli ansiosi, Garcia Marquez i depressi, Dostoevskij chi mangia e beve troppo.

Comunque aldilà della presenza o meno di patologie conclamate e vere malattie, è irrinunciabile credere nell’uso esistenziale della lettura. In effetti, sovente i malesseri dell’anima, i disagi emotivi e affettivi non dipendono necessariamente da vere patologie, quanto piuttosto dal negare spazio alle proprie esigenze interiori e dal bisogno di dare un senso alla propria vita.

Leggere, allora, può veramente dilatare lo spazio interiore e aiutare a trovare un baricentro, poiché la letteratura, in generale, si rivolge soprattutto al cuore , all’universo dei sentimenti e delle emozioni e offre uno strumento suggestivo e intenso per ormeggiare la propria interiorità e per conoscersi meglio.

In un mondo che corre vertiginosamente e che ha fatto della perifrasi “scaricare da internet” una sorta di nuovo comandamento, la lettura, attraverso il contatto fisico con la pagina, rappresenta un’ancora di salvezza alla dispersione di sé al caos, un momento sacro di pausa e riflessione, irrinunciabile per ascoltarsi, scoprire se stessi e prenderci cura di noi. Il libro, diventa così lo strumento principe per tessere e tramare quel racconto interiore la cui continuità, il cui senso è la nostra stessa vita.

Quale miracolo avviene al momento della lettura? Viene totalmente investita la vita interiore del soggetto. Si accende una comunicazione personale, intima, stretta con la cultura attraverso una dimensione vissuta da parte di chi legge.

E’ magico il transfert che si viene a creare tra autore e lettore, una sorta di complicità carica di suggestioni e di intensità e il libro diventa per il lettore un rifugio, uno specchio non deformante, un mondo a cui attingere per articolare maggiormente la formazione del proprio sé.

Tutti i nostri modelli relazionali, i nostri schemi narrativi interiori vengono attivati, rielaborati, modificati grazie alla lettura, concedendoci di provare emozioni che ci riguardano, ma che avevamo rimosso, perché grazie al meccanismo della “proiezione”, siamo portati a lasciarci andare alle emozioni più facilmente se riguardano gli altri, in questo caso i personaggi del libro.

Il libro può quindi avere in questo senso veramente una funzione di guida, in qualità di “ago magnetico” che orienta la nostra ricerca esistenziale, nel tentativo di trovare una risposta alle grandi domande della vita.



Liberamente tratto da:

M.Racci

Libroterapia

Ed.Mediterranee

Il Self Talk

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Per scacciare i pensieri negativi è necessario usare parole di certezza e di speranza. Parlare positivamente toglie la sensazione di dubbio e di paura.

Per cambiare pensiero, l’unica via è parlare in modo positivo e creativo. Creativo nel senso che può CREARE opportunità di soluzione e di rinascita, dove sembra che non ci siano.

Queste affermazioni, di cui più volte ho parlato in vari post, aiutano a relazionarci con gli altri, nel lavoro e nella vita privata e possono essere rivolte a noi stessi nei momenti di difficoltà.

Ognuno di noi può creare un bagaglio di frasi positive che possiamo chiamare “parole guida”. La mia “frase guida “è: “SONO CERTA che tutto andrà per il meglio”.

Le parole guida sono diverse per ciascuno di noi e servono a rafforzare le motivazioni che ci spingono ad agire. Si crea così un dialogo interno con noi stessi, fatto di pensieri e di discorsi, che possiamo chiamare “Self Talk”. Esso svolge una funzione efficace sulle potenzialità che l’individuo ha, e che può avere, in una determinata situazione.

Il “Self Talk” è costituito da parole, frasi o immagini mentali positive. Questo metodo implica la capacità di ascoltarsi e di credere fermamente al proprio potere personale. Nella pratica avere un colloquio con se stessi significa contare sulla propria forza interiore. Così nelle prove della vita riusciremo a ragionare, a trasformare i pensieri neri con parole di incoraggiamento rivolte a noi stessi.

Abituarsi al “self talk” fa desiderare ogni tanto la solitudine per guardarsi dentro, rinforzando la fiducia nelle proprie risorse intellettuali. Per imparare a parlare a se stessi basta stare in silenzio, meglio se in un posto a noi familiare e gradito, e rispondere con parole positive ai pensieri negativi, meglio se ad alta voce.

Credere nel dialogo personale e nella forza d’introspezione ci rende sicuri che il nostro potere personale proviene da chi siamo, e non solo da quello che abbiamo ottenuto.

Una volta che conosciamo il potere del pensiero, dobbiamo imparare a trasformarlo con le parole positive.

Quando la situazione è così grave da non darci la forza di parlare in modo positivo, possiamo aggiungere l’avverbio ORA, o espressioni simili, per individuare un positivo cambiamento per il futuro: “ORA sto male, MA SONO CERTA che presto migliorerò” – “ IN QUESTO PERIODO non ho trovato l’anima gemella” – “OGGI mi hanno bocciato all’esame” – “QUESTA VOLTA non sono stata assunta come speravo”.

Se neanche questo escamotage ci aiuta, proviamo ad aggiungere la frase “ E’ NORMALE”, per esempio “mi fa male la schiena ma E’ NORMALE non mi sono mai riposata”. Dare una spiegazione del perché non ci sentiamo bene o della ragione per la quale le cose non sono andate come speravamo, ci aiuta a trovare nuovi metodi per migliorare e per riemergere.

E’ normale infatti che ci sia il bene e che ci sia il male, è normale che ci possa essere la malattia o periodi più duri o che si creino delle incomprensioni. Questo non vuol dire che la vita è sempre bella e che va sempre tutto bene, ma ci rende consapevoli di poter reagire e agire positivamente nei confronti degli eventi.

“Siamo stati abituati a stare seduti, ad aspettare che qualcuno ci bussi alla porta, che il governo risolva le nostre situazioni, che il marito cambi e sia un uomo diverso da quello che è, che la moglie diventi un’altra persona….. Non è più questo momento. Dobbiamo diventare protagonisti della nostra guarigione in tutti i sensi. Dobbiamo attivare quel guaritore interno che va al dilà della logica e della razionalità e che è un ottimo strumento che ognuno può usare per costruire e per scegliere. Dobbiamo prenderci la responsabilità di attivare quel curatore interno che non ha giudizio, ma che è testimone di come noi stiamo vivendo e di come stiamo usando quella goccia di tempo che accade qui e ora” (Gioia Panozzo -lavora sulla Consapevolezza come Via di Guarigione. Ha fondato l’Instituto Universal “a Vida” dove insegna “L’Arte di Vivere
e di Morire”.)

Quando si presenta un dolore o una dura prova non bisogna sentirsi arrabbiati nei confronti della vita, non serve sentirsi vittime di un fato infame perché la sofferenza è di tutti. La sensazione di sentirsi colpiti da una sorte nefasta, il pensare di essere noi sfortunati ci rende sempre in lotta con la vita, inattivi e incapaci di trovare soluzioni per cambiare.

Al contrario parlare con noi stessi e creare immagini mentali e parole positive ci restituisce lucidità e ci permette di affrontare le avversità con nuova energia.

Occupare il tempo con la sofferenza

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In qualche caso noi facciamo una vera e propria azione di ammutinamento del benessere. Così molte persone giocano a farsi male con la vita attuale fino a quando non si rendono conto che i danni sono ingenti, purtroppo in alcuni casi è necessario farsi male molte volte prima di capire.

In alcuni casi il sistema delle difese organiche, bombardato strategicamente dagli auto boicottaggi, non resiste e le persone si ammalo gravemente. E poi va detto e tenuto in conto da tutti coloro che si occupano di “aiuto”, alcune persone non ce la fanno. Non riescono a prendersi la responsabilità di cambiare la loro vita, di aggiornarla, di renderla attuale, di interrompere la coazione a ripetere instauratasi nell’infanzia.

In questi casi vediamo persone oscillare fra onnipotenza e vittimismo e quando entrano nello stato di coscienza della “sopravvivenza” arrancano paurosamente e cercano di arrabattarsi in qualsiasi modo, mettendo una toppa di qua e poi una di là per tappare le falle che si aprono. Sono persone che non riescono a darsi quel rispetto che consentirebbe loro di “salvarsi”.

Ne ho avute di persone simili tra i miei clienti. Per me è un grande dolore vederle arrivare a far risplendere la propria luce e poi tornare giù e vederle scomparire di nuovo tra le onde. Il mio senso di perfezionismo  una volta non accettava tutto questo, percepivo come sconfitta personale chi decideva di abbandonare il percorso. Oggi ho imparato ad accettare che non tutti vogliono veramente “salvarsi”.

Ho imparato, sulla mia pelle, che bisogna lavorare veramente duro con se stessi. E’ un impegno, un vero e proprio lavoro, ma chi l’ha detto che la vita è una passeggiata?

Eppure basterebbe veramente poco, prendersi veramente cura di sé, tirare fuori le emozioni, rassicurarsi con l’amore verso se stessi e ritrovare la fiducia … ma quanto lavoro c’è dietro la realizzazione di cose così semplici …

Molti invece preferiscono occupare il tempo con la sofferenza, una qualunque, anche la più stupida, pur di non affrontare il dolore, l’abbattimento della cui parete porta al piacere, sì perché solo una parete divisoria separa queste due emozioni tanto profonde quanto confinanti.

Quello che accade è come una disconnessione; l’anima rimane indietro rispetto al pensiero che va troppo veloce.

Se i genitori comprendessero quanto sono importanti per i figli, molti problemi fra genitori e figli non esisterebbero. Invece spesso i genitori di fronte all’imponenza di questo grande affetto regrediscono ad una posizione infantile, così non si sentono né visti, né amati dai figli e reagiscono con misure puerili e sproporzionate nei loro confronti.

Io credo che il nostro nemico più grande sia questo considerarci al di fuori del mondo. Il non considerarci per chi siamo veramente e obiettivamente così come gli altri riescono a riconoscerci e amarci. Questa consapevolezza darebbe al bambino dentro di noi la speranza che spesso rifiuta mettendo sempre dei dubbi, ma non c’è dubbio sul nostro Sé.

Il nostro Sé può essere maltrattato, violato, manipolato ma non muore mai. Il Sé altro non è che quel bambino che aspetta che qualcuno venga a prenderlo, quel bambino che non sa tornare a casa da solo. Ma quel “qualcuno” oggi siamo noi, è l’adulto che c’è in noi, di lui il bambino si fida, perché ha lo stesso odore, lo stesso fiuto, lo stesso cuore che batte forte. Il punto è sentire questa integrazione fra i due livelli di noi stessi: l’adulto e il bambino.

Il cambiamento comporta un cambio di energie. L’energia che fino a quel momento era servita a mantenere il sintomo, questa volta viene impiegata per sostenere il cambiamento. Il primo segnale viene dato da un senso di disagio: quando una persona arriva ad un certo grado di benessere, dopo aver convissuto per molto tempo con la sofferenza, incomincia a sentire un certo grado di estraneità con il piacere e dice: “Adesso sto bene e che faccio?”.

Ma perché una volta raggiunta la consapevolezza dei meccanismi distorti non si riesce a cambiare atteggiamento e si tende inconsciamente a ripetere la coazione? C’è evidentemente un vuoto da colmare e spesso la persona decide di occupare il tempo con la sofferenza. Alcuni sostengono che è per non sentire la paura di vivere, altri per non sentire la paura di morire; in senso generale è lo stesso vuoto che tiene lontane le persone da un percorso di crescita o cambiamento. Sì, perché essenzialmente la paura di vivere è la paura di cambiare il proprio stato, le proprie vere o false sicurezze, lasciare qualcosa di certo, il nostro star male, per qualcosa di incerto: starò mai bene?

Voglio terminare questa riflessione con un brano tratto da “la migliore salute possibile” di Andrew Weil che mette il focus sull’importanza della motivazione come fattore indispensabile a contrastare l’inerzia iniziale ad ogni cambiamento. Il primo passo??? Avere l’umiltà di chiedere aiuto ……

“L’inerzia è la resistenza al movimento, all’azione o al cambiamento. Proprio come i corpi fisici fermi tendono a rimanere fermi, mentre quelli in movimento tendono a continuare a muoversi in linea retta finchè non subentri una forza esterna, anche il corpo umano è resistente al cambiamento. Se avete provato a lavorare una massa di argilla fredda o di pasta di pane, sapete quanta perseveranza e quanti sforzi sono necessari per renderle morbide e malleabili. In questi casi la forza esterna viene dalle mani esperte a lavorare l’argilla o la pasta che superano la naturale inerzia. Molte persone vogliono cambiare la propria vita ma non riescono a immaginare di poterlo fare senza un aiuto esterno: Ritengo che se mani esperte potessero esercitare su di loro la forza necessaria per avviare il procedimento,potrebbero farcela, e intanto restano legate alle proprie abitudini. La risposta a questo problema diffuso sta nella motivazione. Il termine stesso deriva dal verbo latino che significa “muovere” ….”

 

Contro la consapevolezza: strategie elusive e motivi di fuga

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“ Se scegliamo di vivere alla cieca, abbiamo

buoni motivi per avere paura ….” N.Branden


Diverse sono le strategie elusive che mettiamo in atto per sfuggire alla consapevolezza; la più semplice consiste nel non sforzarsi di dirigere il flusso della consapevolezza. Gettiamo le armi decidendo di lasciarci trasportare passivamente dalle associazioni mentali. La nostra mente diventa una nave senza nessun timone che vaga passivamente trasportata dalla corrente.

Un’altra forma di elusione della consapevolezza è la resa passiva alle emozioni : paura, dolore, rabbia diventano più grandi di noi e ci imprigionano. Questo è molto diverso dall’essere testimoni consapevoli di quello che proviamo cercando di vivere con chiarezza le emozioni che proviamo momento per momento senza lasciarci sommergere. E’ possibile provare emozioni intense e nello stesso tempo conservare una totale chiarezza di pensiero, stare nel “qui e ora” consapevoli di quello che si sta provando.

Senza voler suggerire una dicotomia intrinseca tra emozioni e coscienza è facile, spesso, osservare che per molti i sentimenti e le emozioni rappresentano un rifugio dalla realtà. Queste persone agiscono partendo dal presupposto che, fino a quando restano assorbite dalla paura, dal dolore, dalla rabbia , eviteranno di pensare, connettere e agire responsabilmente.

“Ho paura – fermate il  mondo”, “soffro – qualcuno faccia qualcosa”, “sono furiosa- che nessuno osi sfidarmi”. In questo stato mentale, sentimenti ed emozioni equivalgono alla non consapevolezza, al volersi nascondere per evitare di prendersi la responsabilità del sentire.

Esercitare una consapevolezza mirata è un lavoro che richiede fatica; d’altro canto esiste una cosa molto semplice che si chiama avversione per la fatica. La conosciamo tutti molto bene, perché ciascuno di noi vi soccombe almeno una volta ogni tanto. Se permettiamo a noi stessi di soccombervi spesso, sia come legittima forma di riposo, sia come indulgenza temporanea verso noi stessi, ma senza intenzione di evitare per sempre quello che sappiamo di dover affrontare, in genere non ci crea nessun danno. Ma se adottata come stile di vita, o reazione abituale, questa politica è autodistruttiva.

La politica della passività ci lascia addosso la sensazione di essere impreparati di fronte a molte sfide e occasioni della vita, e soprattutto non ci permette di coltivare la nostra autonomia.

La paura è un altro dei motivi che rallentano la presa di consapevolezza. Esistono molte cose di cui si può teoricamente aver paura, ad esempio:

  • Paura della nostra fallibilità. Teniamo presente tuttavia che arrendersi alla paura di scegliere o prendere decisioni è essa stessa una scelta o una decisione e come tale avrà delle conseguenze.
  • Paura di assumersi delle responsabilità. Se la nostra priorità più alta non è raggiungere degli obiettivi, ma evitare di essere ritenuti colpevoli o responsabili di qualcosa, nella vita non realizzeremo mai nulla. Il timore che non osiamo sfidare diventerà la nostra prigione e determinerà i limiti della nostra esistenza.
  • Paura di affrontare la verità sui nostri pensieri, emozioni e comportamenti. Chiunque abbia fatto con successo percorsi di crescita conosce sicuramente l’importanza dell’accettazione di sé. Quando accettiamo e facciamo nostro ciò che siamo; quando digeriamo il fatto che i nostri pensieri, emozioni e comportamenti sono, almeno nel momento in cui hanno luogo, espressioni di noi stessi; quando ci apriamo all’autoconsapevolezza; quando smettiamo di giudicare e cominciamo a vedere; allora diventiamo più forti e diventiamo più integri.
  • Paura di essere sopraffatti dal proprio mondo interiore. La paura di restare sommersi e di perdere la capacità di funzionare se permettiamo a noi stessi di essere “troppo consapevoli” non ha nessun fondamento nella realtà. Questa è una preoccupazione che ho sentito molto spesso da clienti spaventate dalla loro stessa rabbia. A volte, quando questa rabbia non riconosciuta comincia ad affiorare, si chiedono se non stanno “impazzando”. Quando, e se, permettono a se stesse di guardare in faccia le loro emozioni, senza agire contro di esse in maniera distruttiva, ma cercando vere soluzioni alla loro frustrazione,  di solito finiscono per sentirsi più padrone di se stesse e più equilibrate. Ogniqualvolta riusciamo ad integrare una parte di noi che si era in qualche modo separata, il risultato è una sensazione di maggior interezza.

Se viviamo consapevolmente non voltiamo le spalle alla vita: l’abbracciamo. E vedremo che, così facendo sarà naturale per noi abbracciare anche la continua evoluzione della consapevolezza stessa. Perché la vita è crescita, movimento, espansione, spiegamento, slancio dinamico.

 

Le donne e l’autoaccettazione

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Uno dei problemi fondamentali della donna moderna del XXI secolo continua ad essere quello di accettare, rispettare e stimare se stessa. La mancanza di autostima impedisce a molte donne di impegnarsi con coraggio per i propri obiettivi e ideali.

Spesso è difficile e laborioso guardarsi in maniera sincera, accettarsi senza riserve ed esaminare la propria natura più autentica senza illusioni. Per farlo partner, amici o il mondo esterno possono solo fungere da catalizzatori, non possono tenere pronta la soluzione; ogni donna possiede la chiave, la sua chiave, per riuscirci. La responsabilità per la propria vita è unicamente sua. Questa può essere un acquisizione sconvolgente, ma allo stesso tempo anche straordinariamente liberatoria.

Camminando sulla strada dell’autodeterminazione un ringraziamento va fatto a Bert Hellinger, di cui non so molto ma quel tanto che basta per capire l’importanza del metodo delle “costellazioni familiari” nel rendersi conto in che modo, spesso drammatico, il presente di un individuo possa essere influenzato, anche a distanza di decenni, dalle vecchie radici familiari.

Se a quest’ultimo è stato continuamente trasmesso che le sue esigenze dovessero essere messe da parte per permettere agli “altri” di stare bene, l’individuo in questione avrà enormi difficoltà a trovare se stesso e a realizzare il proprio progetto di vita. Chi è stato sollecitato a più riprese a delegare la responsabilità della propria vita “agli altri”, avrà enormi difficoltà a prendere coraggiosamente in mano la propria esistenza. Specialmente le donne, a questo proposito, è necessario che superino vecchie forme di pensiero che determinano ancora, o tentano di limitare, il loro destino e la loro libertà.

Nei miei colloqui di counseling è impressionante vedere in quale misura le donne dispongano della capacità di soffocarsi in nome dell’armonia, di ritirarsi e ammutolire. Dall’esterno sembra dominare l’armonia, ma nella loro interiorità è tutto un fermento e un ribollire; e questa lava impedita a esplodere si raffredda e si indurisce con il passare del tempo.

Se non si dà spazio ai propri processi interiori o si reprimono i propri (legittimi!!!) bisogni, allora questi subiscono una mutazione . Divengono OMBRE. Ombre che ci circondano e inducono due tipi di sviluppi spiacevoli: ci impediscono di vivere spensierate perché ci fagocitano; e oscurano la Luce. Qualsiasi definizione si voglia dare alla luce, questa è la vera Forza nella quale è immersa la nostra vita e dalla quale la nostra vita trae nutrimento. Se le ombre vengono trasformate, la nostra luce appare più bella e radiosa e tutto nel suo insieme apparirà più luminoso.

Ovviamente, va da sé, che confrontarsi con le proprie forze oscure non è né semplice, né piacevole. Vederle negli altri è di gran lunga meno problematico. E’ anche molto più gradevole richiamare l’attenzione del nostro interlocutore sui suoi errori rispetto a subire un richiamo sulle nostre ombre o sui nostri errori. Ma sono proprio queste situazioni spiacevoli a essere i nostri migliori maestri. Ed è proprio dalle relazioni o dagli incontri difficili e dolorosi che ci costringono ad una sfida con la realtà, che possono arrivare i benefici, sempre ammesso che si dia loro spazio , che li si affronti e che si traggano insegnamenti da queste esperienze. In questo caso ci saranno più occasioni in cui si individueranno nuovi aspetti della propria personalità. Ci si avvicinerà al nucleo della propria identità e si svilupperà passo dopo passo la propria vera forza interiore da cui avrà inizio una nuova vita.

Tutto ciò significa: ACCETTA TE STESSA! Vivi i tuoi pensieri e attraverso loro la tua vita! Liberati dall’oppressione facendo tutto ciò con coscienza e amore. La “battaglia dei sessi” è un disconoscimento della reale problematica. AMA TE STESSA  e smettila di preoccuparti!

Solo tu stessa puoi fare in modo di ESSERE TE STESSA.

La vita ti aspetta. Abbi il coraggio di accettarti per come sei. La vita ti ha voluta così!!!!

 

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